Inform@fisac dicembre 2015 n. 1

POPOLARI, BCC, sofferenze e bail-in. Le 4 mosse per le banche italiane

 

La ristrutturazione del sistema bancario italiano, sotto il fuoco incrociato delle crescenti richieste dei regolatori e di quelle – non meno pressanti di investitori e clienti, tiene sul filo i banchieri. E con essi i dirigenti di Governo, Tesoro e Banca d’Italia che sono rientrati in cabina di regia per completare il più e il meglio possibile un quadro creditizio consono alle scadenze politiche e normative che chiudono l’esercizio 2015. Tutto si affastella: e il blitz di domenica 22 novembre per formalizzare il salvataggio di quattro piccole banche del Centro Italia bene illustra la situazione, e lo spirito delle cose che si preparano nello scorcio d’anno.

Dopo mesi di trattative sfinenti ma improduttive con le istituzioni sovranazionali, per agevolare soluzioni alternative (e meno onerose per il sistema) giovedì 19 le autorità hanno avvisato, brutalmente, le grandi banche e le Fondazioni socie dei quattro gruppi in dissesto – ovvero i principali “pagatori” del salvataggio da 3,6 miliardi, da versare entro il 7 dicembre nel neonato Fondo di risoluzione – che nel giro di poche ore si sarebbe riunito il consiglio dei ministri per formalizzare l’operazione. Altro tempo non ce n’era, se non si voleva finire sui giornali, dal 1° gennaio, come il primo caso di bail-in bancario europeo.

E spaventare ancor di più i depositanti italiani e i migliaia di obbligazionisti bancari non subordinati. Ma l’iter complesso avviato su Banca Marche, Ferrara, Etruria, Chieti, è solo una parte dei lavori in corso da parte del governo e della tecnocrazia di Via Nazionale, che a un anno dall’introduzione della vigilanza unica europea sembra ritagliarsi un ruolo più accentuato di “intermediario tecnico e culturale” tra l’Eutotower e il tessuto creditizio nostrano. Dopo l’antipasto appenninico, il menu di San Silvestro prevede altre portate:

  • il varo della riforma delle Banche di credito cooperativo;
  • lo scocco della prima scintilla d’amore tra le otto popolari-spa;
  • l’offensiva diplomatica e legale per valutare la costituzionalità della direttiva Brrd sul salvataggio ordinato;
  • la liquidazione di parte dei 200 miliardi di sofferenze, tramite un veicolo dotato di capitale – o almeno garanzia – pubblici;
  • un monitoraggio del “caso Unicredit”, su cui i mercati attendono chiari riscontri di rafforzamento patrimoniale.

Si tratta di pietanze non meno impegnative di quella cucinata domenica 22; e da preparare, secondo i casi, con gli ingredienti della moral suasion, della sapienza tecnico-giuridica e dell’esperienza in vigilando.

LA RIFORMA DELLE BCC

Ogni impegno è un debito politico. E il governo Renzi si è impegnato con l’Europa a riformare, entro il 2016, il numeroso mondo del credito cooperativo. Solo che la chance offerta a Federcasse, di realizzare un’autoriforma nel solco di quella riuscita alle Fondazioni ex bancarie, sembra andata sprecata. La proposta di Alessandro Azzi, appena confermato alla guida dell’associazione che riunisce le Bcc, non convince parti importanti del movimento, specie le federazioni Lazio e Trentino. E sembra non convincere nemmeno la vigilanza, che considera poco realizzabile la soglia di capitale di un miliardo, tanto alta da rendere la sola Iccrea possibile holding unica delle Bcc. Il sottosegretario Baretta, avvisando Azzi che il tempo sta scadendo, ha promesso per Natale un decreto legge. Anche in questo caso, c’è una dozzina di gruppi commissariati che sarebbe opportuno mettere in sicurezza tramite un processo di consolidamento, piuttosto che affidarli alla risoluzione prevista dalla direttiva Brrd.

I tecnici sono comunque al lavoro, per integrare la bozza Federcasse dei necessari snodi normativi che la rendano compatibile con il Tub e le direttive Ue. I punti da sciogliere sono le caratteristiche della (o delle) future holding capogruppo, e le modalità di adesione o di abbandono dei nascenti gruppi di Bcc. Materia tecnica e politica, ma gli sherpa stanno scrivendo: sembra si preparino tre diverse soglie, per tre gruppi nazionali di matrice cooperativa. Qualche fusione preparatoria frattanto si è già vista, specie in Lazio e in Toscana.

LE FUSIONI DELLE POPOLARI

Dopo otto mesi, l’iter burocratico è partito: ma nella pratica, siamo a Carissimo amico, perché le fusioni che erano l’obiettivo derivato della trasformazione in spa sono ancora sulla carta. Ci sono le convocazioni delle assemblee per convertire i maggiori istituti in spa (anzi, Ubi ha già proceduto) e molte nomine di advisor per arrivare agli appuntamenti con i soci con una “storia da raccontare”. Preferibilmente una storia di aggregazione e di crescita, dato che entro fine 2016 tutti questi gruppi saranno spa e gli investitori entreranno soltanto se vedranno occasioni di rilancio solide, e soprattutto voteranno nelle future assemblee in base al peso azionario, non più pro-capite. Le protagoniste più lanciate sembrano a tutti Ubi, Bpm e Banco popolare, da cui nel giro di un paio di mesi dovrebbe scaturire il binomio che aprirà le danze. E’ ancora difficile fare le probabilità, perché molti dei manager coinvolti ragionano in base alla personale convenienza. “Problemi di governance”, per usare il linguaggio più formale di Daniéle Nouy, presidente del board della vigilanza europea che giorni fa a Milano ha arringato i banchieri italiani.

BAD BANK

Dopo quasi un anno, in cui il monte dei crediti non onorati è costantemente salito, fino a 200 miliardi, la dialettica serrata e aspra tra le autorità italiane, politiche e tecniche, e la Commissione europea non ha dato luogo al veicolo pubblico- privato per cartolarizzare le sofferenze, né ad altre soluzioni consimili. Oggettivamente, è un tempo troppo lungo perché possa durare ancora. Negli ambienti bancari si riferisce che il Tesoro, che ha portato avanti la trattativa a Bruxelles, entro fine dicembre prenderà comunque una posizione: la versione a contributo pubblico della bad bank – si era provata a coinvolgere la Cdp, per quanto i suoi nuovi vertici fossero poco ispirati dal dossier – sarebbe ormai una possibilità residua. Ma potrebbe accreditarsi una soluzione privata, in cui il capitale viene dagli operatori specializzati e dalle banche stesse più interessate ad apportare sofferenze, a valutazioni di mercato, per poi venderle. Con le garanzie prestate da Cdp o dalla Sace, sempre che si risolva il difficile quesito di prezzarne adeguatamente il costo.

L’OPPOSIZIONE AL BAIL IN 

Un altro fronte di attenzione, per il sistema bancario nazionale, riguarda l’attività di opposizione, legale e della lobby, contro la direttiva sul salvataggio ordinato, in vigore da gennaio. I mugugni sono in corso da tempo, specie da parte dell’Abi che raggruppa la lobby bancaria, contro un contesto europeo vissuto come ostile: sia nei passaggi che hanno portato alla vigilanza unica (leggi stress test e vigilanza Srep 2014) sia per la gestazione della direttiva che spalma su azioni, bond e depositi sopra i 100mila euro il costo prioritario dei salvataggi. A Roma diversi funzionari ritengono che il provvedimento varato a giugno a Bruxelles possa violare il principio della non retroattività delle norme, perché espone a nuovi rischi i contratti pattuiti nel passato da obbligazionisti e correntisti degli istituti che salteranno dal 2016. A Vienna, in luglio, la Corte costituzionale ha respinto un tentativo del governo di far pagare ai creditori subordinati il crac di Hypo Alpe Adria. La tesi dei giudici austriaci è che quel salasso avrebbe violato la Costituzione, rendendo nulle le garanzie offerte agli obbligazionisti dal governo della Carinzia. Soprattutto, la Corte ha chiesto di abrogare la norma pioniera del bail in introdotta nel 2014 dal ministro delle finanze. Potrebbe essere un precedente per l’Abi, o per tutti gli investitori che si sentissero bistrattati dalle novità normative.

 

Fonte: La Repubblica

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