Altre otto vittime, lo scorso 8 maggio, in un incendio in uno stabile alla periferia di Dhaka, dove operava l’azienda tessile Tung Hai Sweater Ltd., mentre si continua a scavare ed estrarre corpi dalle macerie del Rana Plaza, un edificio di nove piani crollato il 24 aprile scorso a Dhaka, in Bangladesh, che ospitava cinque aziende di abbigliamento (New Weave Bottoms, New Weave Style, Phantom Apparels, Phantom Tac Bangladesh Ltd ed Ethertex Textiles), in cui lavoravano circa tremila persone. A seguito di questo crollo, il bilancio ancora provvisorio è di oltre 1000 persone morte e circa 2500 ferite, alcune delle quali molto gravemente. Probabilmente non si potranno conoscere mai i numeri esatti delle vittime.
Il giorno precedente alla tragedia, numerosi lavoratori erano scappati dall’edificio, perchè si erano d’improvviso aperte delle crepe sui muri. La polizia aveva anche fatto evacuare i locali, ma i datori di lavoro avevano detto che il palazzo era in sicurezza e avevano minacciato di licenziamento coloro che dicevano di avere paura a rientrare.
Nove persone, tra cui tre proprietari delle fabbriche e due ingegneri che avevano seguito i lavori per l’ampliamento dello stabile, sono state in seguito arrestate.
L’immane tragedia del Rana Plaza segue un’interminabile catena di incendi, crolli, infortuni mortali che quasi quotidianamente hanno come conseguenza la morte di decine di lavoratrici e lavoratori in un settore manifatturiero – l’abbigliamento – che occupa dai 3 ai 5 milioni di lavoratori (soprattutto giovani donne) e costituisce l’80% dell’esportazione del Bangladesh.
Come è noto, si tratta di aziende piccole e medie (relativamente alle dimensioni della popolazione di un paese di 160 milioni di abitanti) che costituiscono l’anello intermedio o finale di una lunga catena di subforniture, alla testa della quale stanno i principali marchi europei e mondiali dell’industria dell’abbigliamento, dove le condizioni di lavoro sono semischiavistiche e prive di qualsiasi attenzione alle più minime norme di salute e sicurezza, per salari che non superano i 50 $ mensili.
La pressione internazionale sul governo del Bangladesh e sulle aziende multinazionali, che – in violazione delle Convenzioni OIL, delle Linee Guida OCSE e dei Principi Guida dell’ONU su Imprese e Diritti Umani – non si preoccupano di verificare le condizioni di lavoro e di sicurezza delle aziende della loro catena di subfornitura, ha fatto sì che, dopo questa immane strage, il governo del Bangladesh intervenisse con la chiusura di 18 aziende “pricolose”. Ma, se l’azione non proseguirà, si tratterà di una goccia nel mare delle oltre 5.000 aziende del settore, solo nell’area di Dhaka.
Una missione di alto livello dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro si è recata in Bangladesh, nei primi giorni di maggio, dove ha convenuto con Governo e parti sociali un piano nazionale di azione articolato con iniziative a breve e medio termine, quali la riforma della legge sul lavoro da proporre al Parlamento entro giugno 2013, con miglioramenti sull’esercizio dei diritti fondamentali di associazione sindacale, contrattazione e tutela della salute e della sicurezza; verifica delle condizioni di sicurezza di tutti i siti produttivi di abbigliamento destinato all’export; programmi di formazione e reimpiego per i lavoratori colpiti dalle tragedie come alla Tazreen o al Rana Plaza; l’assunzione di 200 nuovi ispettori; l’attuazione del Piano Nazionale Tripartito di Azione sulla Sicurezza e la Prevenzione degli incendi nelle fabbriche di abbigliamento in Bangladesh e dei meccanismi di verifica e monitoraggio sul Piano di Azione.
L’Organizzazione Internazionale del Lavoro, agenzia tripartita delle Nazioni Unite, competente in materia di lavoro, ha espressamente impegnato il Governo del Bangladesh a chiedere che le imprese coinvolte nei disastri degli ultimi sei mesi rispondano delle loro omissioni e negligenze ed ha richiamato i marchi e i committenti internazionali ad assumersi la propria responsabilità per il miglioramento delle condizioni di lavoro, della salute e della sicurezza.
Dal canto suo, il Gruppo di Lavoro delle Nazioni Unite su Imprese e Diritti Umani ha richiamato le grandi aziende committenti alla loro responsabilità di condurre una “due diligence” in tutta la catena della subfornitura, secondo i principi di prevenzione e di “rimedio” delle violazioni dei diritti umani. Pavel Sulyandziga, presidente del Gruppo di Lavoro, ha ricordato come, il governo del Bangladesh abbia il dovere di assicurare la protezione dei lavoratori e la compensazione per le famiglie delle vittime e per gli infortunati, ma, allo stesso tempo, che le imprese committenti hanno il dovere di fare tutto il possibile per prevenire e rimediare ai rischi dei lavoratori nella catena della subfornitura.
Sulyandziga ha anche ricordato come, diverse delle aziende direttamente coinvolte in queste gravissime violazioni siano state “cerficate” da iniziative di “audit sociale”, che non sono state in grado, evidentemente, di individuare i gravissimi rischi e di favorire la prevenzione degli incidenti.
Un denuncia recentemente confermata anche dalla Confederazione Internazionale dei Sindacati (CSI-ITUC) con la presentazione di un dettagliato rapporto della Confederazione statunitense AFL-CIO sulla “industria della certificazione sociale” (WRAP, FLA, SAI, ed altre)
La Federazione internazionale dei sindacati dell’industria IdustriAll, anche con la “mediazione” dell’Agenzia tedesca per la cooperazione allo sviluppo, GIZ, ha incontrato un gruppo di marchi internazionali di produzione e commercializzazione, proponendo la firma del Bangladesh Fire and Building Safety Agreement, che le impegna a garantire standard minimi di salute e sicurezza degli edifici e degli impianti industriali. Sulla stessa posizione, l’organizzazione International Labour Rights Forum e la campagna “Abiti puliti” hanno sollecitato tutte le imprese operanti nel paese asiatico a sottoscrivere questo tipo di accordo.
Ad oggi, tra le firmatarie di tale documento non risultano imprese italiane.
Dopo che diverse testate di stampa hanno riportato che marchi italiani come Benetton, Itd Srl, o la Pellegrini Aec Srl e la De Blasio Spa erano tra i clienti delle fabbriche crollate, un’altra ditta, la Essenza Spa, che produce il marchio Yes-Zee, ha confermato di essersi rifornita al Rana Plaza.
Il 9 maggio Benetton ha ammesso di essersi in passato rifornito dalla New Wave, che si trovava proprio nel Rana Plaza, e che ultimamente si era affidato ad un altro fornitore che a sua volta acquistava al Rana Plaza.
Del resto, documenti ottenuti dall’inglese IBTimes mostrano, senza possibilità di equivoco, che il 23 marzo 2013, a solo un mese dalla tragedia, nel Rana Plaza si producevano vestiti per Benetton.
L’8 maggio è stata presentata, alla Camera dei Deputati, un’interpellanza parlamentare, affinchè le aziende italiane clienti delle fabbriche del Rana Plaza forniscano al Governo un chiarimento sui rapporti produttivi e commerciali e si assumano le loro responsabilità verso superstiti e familiari. La stessa interpellanza ha sollecitato anche iniziative nelle dovute sedi internazionali per assicurare il rispetto dei diritti dei lavoratori nei Paesi di nuova industrializzazione, in particolare quelli in cui operano le aziende italiane, facendo sì che le stesse aziende subappaltanti lavoro nelle fabbriche di abbigliamento, in Bangladesh come in altre realtà, siano tenute a verificare il rispetto degli standards internazionali del lavoro, a partire dalle convenzioni fondamentali.
Del resto, il Governo italiano è tenuto a promuovere e far rispettare le Linee Guida dell’OCSE sulle Multinazionali, che prevedono il rispetto dei diritti umani e delle norme fondamentali del lavoro in tutti i paesi dove queste aziende operano, anche con responsabilità sulla catena della subfornitura.
La sezione italiana della campagna internazionale Abiti Puliti ha chiesto all’amministratore delegato di Benetton una chiara assunzione di responsabilità e gli ha indirizzato una lettera di richieste, sollecitandolo anche a confrontarsi con i sindacati locali.