Donne di tutto il mondo: una voce speciale

Come primo numero del 2022, pubblichiamo l’intervista di Alessandra Cialdani.
Buona lettura.


Oggi “Donne di tutto il mondo” ospita una voce speciale. In questa intervista una giovane dirigente sindacale, con un ruolo di responsabilità all’interno del mondo sindacale europeo, ci offre un punto di vista privilegiato sul ruolo delle donne e la parità di genere a Bruxelles, sui progressi fatti e su quello che c’è invece ancora da cambiare.

D- Vogliamo iniziare questa intervista “a gamba tesa”, parlando subito di numeri, delle percentuali di donne presenti nel sindacato in Europa. Il settore banche, assicurazioni e finanza complessivamente ha più lavoratrici che lavoratori, 51% contro 49%. In CGIL vige la regola statutaria del 40% per genere. Anche nella nostra federazione europea di categoria, UNI Europa Finance, siedono nel Praesidium (segreteria) 2 donne e 3 uomini, e c’è una norma 40×40 per i gruppi e gli Steering Committee (direttivi). Vale per UNI Europa Finance, ed anche per UNI Global in tutti i settori a livello mondiale. Ci sono poi 3 rappresentanti giovani under 35, non c’è una quota vera e propria ma un posto con 2 sostituti.

Queste percentuali, apparentemente positive, sono effettivamente segnale di una parità di genere piena e soddisfacente? Oppure c’è ancora da fare?

R- In alcune federazioni europee, a partire dagli ultimi congressi, si sta provando a adottare una regola 50×50. A me piace anche 40×40, perché questo dà margine per avere oltre il 50% di donne. Tuttavia, anche se lavoro con moltissime donne brave ed esperte a livello di affiliati (diciamo ad un middle level), più alto si va nel ruolo, più le posizioni di potere/decisionalità vanno a uomini. C’è ancora da fare per rompere il soffitto di cristallo.

Ad una delle nostre ultime conferenze per un progetto europeo una collega giovane di un paese dell’Europa Centro-orientale è venuta a ringraziarci per aver potuto rispondere ad un survey anonimamente, perché, ha detto, e lo ricorderò sempre, “Finally I have a voice”. Questo perché lei andava sempre alle riunioni internazionali con il suo capo (il segretario generale della sua organizzazione), e quindi parlava sempre lui, mentre lei, che aveva le proprie idee, aveva l’impressione di non poterle condividere nei consessi ufficiali. Questo ci dà un segno di come le donne ci sono, partecipano agli incontri e avrebbero molto da dire, ma quando è presente il capo possono rimanere in qualche modo bloccate.

D- Dispiace constatarlo, ma questa è una realtà diffusa. Anche i paesi nordici, che sono i più avanzati, hanno quasi tutti i ruoli apicali ricoperti da uomini, salvo qualche piccola eccezione. Il sindacato spagnolo sta facendo grandi progressi, la Francia invece ha diverse donne in posizioni apicali. Qualcosa si muove, ma c’è ancora del lavoro da fare.

R- In tema di inclusione a 360 gradi, è interessante la novità di costituire, durante lo svolgimento di Congressi e Conferenze di settore, una Commissione contro le molestie, deputata a raccogliere segnalazioni. La Commissione avrà naturalmente una composizione adeguata, e magari non riceverà alcuna segnalazione, ma il fatto stesso che esista una commissione simile ha l’effetto di fare da deterrente per possibili comportamenti abusivi. Potrebbe essere assolutamente da esportare anche nei singoli paesi e nelle organizzazioni sindacali a livello nazionale.

D- Se parliamo invece di giovani, ci sono resistenze forti a un ricambio. Non viene purtroppo fatto mentoring, si pensa poco a formare una nuova generazione di funzionari. Se non entriamo in quest’ottica le giovani donne per arrivare a ruoli decisionali dovranno attendere, se va bene, di avere 55 o 60 anni, ma non è corretto. Le organizzazioni dicono di volersi svecchiare e aprire alla novità, ma poi sono persone di mezza età che vogliono introdurre novità. Così non si lascia spazio alle istanze e alle energie della generazione successiva, diciamo a quella under 40.

R- Io nell’ambiente sindacale europeo non mi sono mai sentita trattata con superiorità in quanto donna, ma è tutt’altra storia quando si va a parlare con gli imprenditori. Nel confronto con i rappresentanti degli imprenditori a livello europeo (quasi tutti uomini) ho avuto spesso la percezione che a una funzionaria sindacale donna e giovane fosse attribuita meno autorevolezza che ad un funzionario uomo ultraquarantenne. Non saprei dire se questo sia dovuto al genere o all’età, oppure a entrambi. Fatto sta che se nella stanza ci sono questo funzionario e questa funzionaria, tendenzialmente la controparte si rivolgerà all’uomo, ritenendolo di default il decisore.

Credo anche, e di questo ho parlato con molte amiche che lavorano in settori differenti, che spesso in ufficio o in occasione di congressi/incontri le donne, quale che sia il loro ruolo, tendano a “pensare a tutto”.
Se occorre preparare il caffè, prenotare un taxi, verbalizzare una riunione, controllare che ci siano penne ed acqua, risulta automatico che a farlo sia una donna. Spesso è lei stessa a proporsi. Perché avviene questo? Le stesse richieste non sono poste agli uomini, di pari età, grado e ruolo? Questi ultimi dicono di no?
Oppure non si propongono? Mi chiedo se sia, tra virgolette, “colpa” nostra. Vogliamo aiutare, risolvere le problematiche, e questo è un approccio corretto. Ma poi ti rendi conto che si inizia col chiamare un taxi e si finisce col preparare tutti i caffè, e perdersi metà della riunione. Dovremmo essere noi a dire di no, o dovrebbero gli altri rendersi conto di come chiedono e a chi chiedono? Questo non vale solo per il sindacato, ma ovunque.

D– Talvolta è utile sottolineare apertamente questi comportamenti, in maniera che chi riceve l’appunto ci rifletta, e corregga il tiro le volte successive.

R- Questo sta anche agli uomini, pensiamo al “Chairgate” di Ursula Von der Leyen in Turchia. Avrebbe dovuto essere Charles Michel, il presidente del Consiglio Europeo, a pretendere che si portasse una poltrona per Von der Leyen. Non è neppure corretto che siamo sempre e solo noi a reclamare spazio, ascolto, il giusto riconoscimento di ruolo e autorevolezza.

Mi viene in mente quello che negli Stati Uniti è definito il fenomeno dei “golf players”, cioè delle decisioni o accordi che vengono presi in sedi ristrette e informali. Io noto che in Europa, anche in ambiente sindacale, ci sono le riunioni ufficiali, e poi tutto quello che succede “fuori”, ad esempio il ritrovo serale al bar per bere un whisky. E ho notato che né io né altre donne siamo invitate, mentre gli uomini sì. E neppure voglio essere invitata, dopo la riunione e la cena posso aver voglia di tornare in stanza, ma questo di fatto mi esclude da una arena decisionale informale. Questo succede probabilmente quando i decisiori sono uomini, che talvolta impongono certe formule rispondenti allo stereotipo delle “cose da uomini”. Se le boss fossero donne, promuoverebbero, per rimanere nello stereotipo, dei giri di shopping escludendo gli uomini?

Oppure, non sarebbe meglio dire: abbiamo svolto la riunione nel nostro tempo di lavoro, socializzato un po’a cena, ma dopo mi prendo cura di me stessa? Vado in camera, mi rilasso, e riprendiamo il lavoro domani. Anche perché, come dicevamo prima, magari per garantire il buono svolgimento della riunione abbiamo curato una marea di dettagli e attività di contorno e logistiche, che esulano dalla parte politica ma risucchiano molte energie. Gli uomini, non avendo dovuto “pensare a tutto”, possono forse permettersi più facilmente di ritrovarsi al bar per un whisky e fare tardi, e non devono svegliarsi prima il giorno successivo per gli adempimenti pratici di cui sopra. Questo non è scontato e non è ineluttabile. E non sta solo alle donne dire di no, ma anche agli uomini di proporsi.

Non si tratta di demonizzare un drink preso insieme la sera, ma di garantire che non ci siano esclusioni, di trovare un equilibrio tra momenti formali e informali.

D- Il rischio è che il potere si autoalimenti così come è stato fino a oggi, e non sia inclusivo, non riuscendo a contemperare le novità, le differenze (di genere, di età, di regime alimentare etc.)

R- D’altra parte io apprezzo molto … (un funzionario del settore). Stavamo facendo una riunione la cui durata era stata fissata dalle 14 alle 16, e verso la fine si capiva che i lavori si sarebbero protratti oltre. Lui, che coordinava il gruppo di lavoro, alzò la mano e disse: “Il programma era di concludere la riunione per le 16, e io devo andare a prendere i bambini a scuola”. E tutti noi abbiamo convenuto che facesse bene, perché quelli erano gli orari stabiliti su cui i partecipanti si erano regolati per i propri impegni, abbiamo chiuso la riunione e fissato la ripresa dei lavori in una data successiva. E’ tra l’altro importante vedere che oggi diversi uomini (la persona di cui dicevo ha circa 40 anni) anche con posizioni lavorative elevate, rivendichino il tempo per la cura dei figli. Magari per trovare questo mitico equilibrio dobbiamo diventare tutti consapevoli del fatto che esistono degli orari formali, dobbiamo finire all’orario concordato, e deve essere un orario che va bene per tutti.

D- La conciliazione deve diventare un tema per tutti, e non soltanto per le donne. Siamo esseri umani e abbiamo bisogno di tante cose. Un’altra cosa che ti volevo chiedere: l’Europa intesa come Istituzioni Europee, e in generale l’ambiente di Bruxelles, sembra piena di donne (mi vengono in mente Von der Leyen, Lagarde, Tinagli che è a capo di ECON…), ma questo produce un vero cambiamento?

R- Vedere una donna presidente della Commissione Europea o della BCE, essendo più giovane, mi mostra che “anche io lo posso fare, un giorno”. Quando ero piccola in quei ruoli vedevo solo uomini. Vedere delle donne al potere dà alle più giovani modo di sognare di ricoprire quei ruoli, e questo vale anche per persone appartenenti alle varie minoranze… tutto ciò che si allontana dall’uomo bianco di mezza età, quello che una giovane delegata definiva scherzosamente all’inglese “pale, male and stale”. [Letteralmente: “pallido, maschio e stantio”]

Allo stesso tempo, vedere delle donne al potere mostra come anche loro possano “fare del male” e gestire male quel potere. Non è sufficiente che una donna ricopra una casella importante, siamo tutti esseri umani e le donne possono fare schifo, proprio come possono farlo gli uomini. Ma il punto è che per l’operato di noi donne l’asticella è sempre più alta. Siamo costrette a dar prova di essere migliori degli uomini. Invece dobbiamo imparare a dirlo: non siamo perfette, non siamo sovrumane come sembra che ci venga richiesto di essere.

D- “Avremo la parità quando un uomo mediocre sarà sostituito da una donna mediocre”, come dicevamo prima. Nel tuo percorso, a partire dagli studi, nel tirocinio e poi nel lavoro dentro i sindacati europei, quali problematiche hai riscontrato rispetto alla parità di genere?

R- Avendo studiato scienze politiche e lingue, settori in cui ci sono molte più studentesse che studenti, all’università non ho percepito alcun problema di genere. E’stato quando sono entrata nel mondo del lavoro, essendo anche giovane, che mi sono accorta di un concorrenza sbilanciata. Ho visto che la maggior parte dei capi erano uomini. In parte la tematica è generazionale: lavoro con molte donne, i capi (uomini) sono per lo più della generazione precedente, sarà interessante vedere cosa succederà al cambio di generazione, se la composizione degli organigrammi si rifletterà anche sui livelli di comando.

Personalmente non ho vissuto episodi di sessismo. Tuttavia in ambito di tirocinio in istituzioni europee, alle dipendenze di personaggi politici sia uomini che donne, c’era una prevalenza di assistenti politiche donne.
Posso pensare che una tirocinante, che per definizione è all’inizio del suo percorso e ricopre una posizione subordinata, non darà in ogni caso fastidio, e lavorerà moltissimo. Quando si tratta di crescere di grado, invece, ti senti più bloccata.

D- Anche a livello europeo hai visto che la maternità diventa un ostacolo alla carriera delle donne?
Perché da noi è un elemento molto evidente.

R- Vedo come ostacolo il fatto che gli uomini non abbiano abbastanza parte nei primi mesi e anni di vita dei figli. Io credo che sarebbe fondamentale che gli uomini avessero più accesso al congedo di paternità e al part time, verticale e orizzontale. In Belgio ci sono dei giorni di congedo che possono essere fruiti a scelta dal padre o dalla madre, tipicamente a metà della settimana lavorativa, il mercoledì, e di fatto sono quasi sempre le donne a scegliere di utilizzarli. Ma giorno dopo giorno sono le donne che non ci sono in ufficio, sono le donne che devono uscire prima per andare a prendere i figli. E non è questo in sé che deve cambiare: è che anche gli uomini devono prendere questi permessi, le aziende devono giocare il proprio ruolo nel cambiamento. Io vedo, nei miei coetanei, che i padri vorrebbero passare più tempo con i propri figli sin da quando sono molto piccoli, ma è come se avessero l’impressione di dover stare più tempo in ufficio, perché è questo che ci si aspetta da loro. E anche qui diventa un fattore chiave concludere le riunioni quando previsto, non organizzare incontri informali la sera… c’è tanto lavoro da fare.

D- Nell’approfondire l’argomento dei congedi genitoriali, e anche nel confronto con i lavoratori, ho visto che sì, il problema è culturale, ma che se a livello di politiche di welfare si rendesse più conveniente per le famiglie che fosse l’uomo a prendere congedi e permessi (ad esempio attraverso delle premialità), queste famiglie li prenderebbero. Se tu dai più ore di permesso, poi le persone iniziano a utilizzarle, e se più persone ne fanno uso poi a livello culturale la cosa diventa normale.

R- E’controproducente, a volte, il meccanismo di concessione di misure di welfare (come ad esempio il posto all’asilo nido) a chi guadagna meno. Questo penalizza le donne con retribuzioni più alte, quindi con percorsi di carriera avviati, che dovranno pagare per un nido privato, se disponibile. Ma se, come succede spesso, è l’uomo a guadagnare di più, la famiglia decide che a restare a casa sia il componente con il reddito più basso, cioè la donna. Ci sono cambiamenti da fare su davvero moltissimi fronti.

D- Ci vogliono modelli di leadership femminile che ci portino a cambiare le cose, come ci vuole una generazione di uomini che pensi che nella vita ci sia altro oltre al lavoro, e ai quali si insegni anche che c’è qualcosa di diverso oltre al lavoro.

finora, è stato costruito da uomini, strutturato intorno alle loro capacità e caratteristiche. Si parla invece (non so con che modalità sarà possibile) di creare un mondo del lavoro a misura anche delle donne, che ad esempio hanno il ciclo. Noi donne lavoriamo in maniera diversa in ogni settimana del mese, e si potrebbe utilizzare questa caratteristica in modo vantaggioso. Ci sono settimane in cui siamo maggiormente creative, altre in cui siamo più focalizzate ed analitiche, eccetera. Pensiamo poi alle lavoratrici che vanno in menopausa. Alcune recenti campagne di sensibilizzazione ci stanno dicendo: “E se…?”, “E se cambiassimo il modo di lavorare in funzione delle caratteristiche ed esigenze delle donne?”. Chi ha detto che si debba lavorare rigidamente dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 17? Ci conviene? Forse sì, forse no. Valutiamolo.

D- Questo è un livello molto avanzato di analisi e approccio. Sarebbe incredibile riuscire ad arrivare a questo punto anche nei nostri posti di lavoro, mettendo mano alla struttura delle diverse produzioni in ottica di parità di genere.

Un’ultima domanda: ipotizziamo di avere una bacchetta magica che ci porti in avanti nel tempo di cinque anni, al 2026. Cosa vorresti veder realizzato in cinque anni nella prospettiva di gender equality e sindacato?

R- Sarebbe facile rispondere che vorrei vedere più donne al potere, ma infine non è questa l’essenza del problema. Mi piacerebbe che tra cinque anni di gender equality non ne parlassimo più affatto, e che non fosse più un “problema” continuo, perché è stata raggiunta. Certo non è molto tempo, ma se si può sognare…! E poi, non è neppure un sogno tanto folle. Tempo fa parlavo con una donna un po’più grande dei miei genitori, nata negli anni ‘40. Lei ha fatto un lavoro bellissimo per il governo inglese, tra le altre cose è stata inviata come agente governativa nei paesi arabi, dove essendo donna nessuno le prestava attenzione, e poteva raccogliere moltissime informazioni. Ha avuto una vita straordinaria. Ma tutto questo lo ha fatto dopo aver divorziato, perché da ragazza aveva iniziato a lavorare come segretaria e dattilografa, ma dopo il matrimonio di fatto le fu impedito di continuare a lavorare, di avere un proprio conto in banca, e questo succedeva negli anni ‘60 a Londra. Adesso per noi è inconcepibile. Quindi spero che tra cinque, forse dieci anni, diventeranno inconcepibili per noi l’assenza di donne nei posti di potere, e le dinamiche discriminatorie che ci sembrano insuperabili oggi.

 

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