Proposta di lettura: We Should All Be Feminists

Alessandra Cialdani del Dipartimento Internazionale ci propone oggi una lettura dal titolo “Dovremmo essere tutti femministi”, un saggio della scrittrice e attivista nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, che ha liberamente tradotto per noi. Pubblicato in lingua originale nel 2014 dalla casa editrice Fourth Estate è un adattamento di un discorso tenuto dall’autrice durante un ciclo di conferenze TEDxEuston nel 2012 in Gran Bretagna.

L’amico Okoloma “rivela” a Chimamanda la sua anima “Femminista”. Dall’incontro con un giornalista dispensatore di consigli non richiesti scaturisce poi la definizione di “Femminista Felice”.  Dopo l’amico Okoloma e il giornalista dispensatore di consigli, ecco il turno dell’accademica nigeriana che porta alla costruzione dell’identità di “Femminista Africana Felice” e infine dal confronto con un “caro amico” Chimamanda ne uscirà come “Femminista Africana Felice che non odia gli uomini e a cui piace indossare il rossetto e i tacchi alti per se stessa e non per gli uomini”.

Uomini e donne sono differenti – dice Chimamanda Ngozi Adichie – abbiamo ormoni differenti, differenti organi sessuali e differenti abilità biologiche (le donne possono avere bambini, gli uomini no). Gli uomini hanno più testosterone e sono, in generale, fisicamente più forti delle donne. Ci sono un po’ più donne che uomini nel mondo – il 52% della popolazione mondiale è di sesso femminile – ma gran parte delle posizioni di potere e prestigio è occupata da uomini. La persona più qualificata per comandare non è quella più forte fisicamente. E’ la più intelligente, la più competente, la più creativa, la più innovativa. E non ci sono ormoni che determinino questi attributi. Un uomo ha le stesse probabilità di una donna di essere intelligente, innovativo, creativo. Ci siamo evoluti. Ma le nostre idee sui generi non si sono molto evolute.

Sto cercando di disimparare molte lezioni di genere che ho interiorizzato durante la crescita. Ma talvolta mi sento ancora vulnerabile di fronte alle aspettative di genere.

Ho scelto di non scusarmi più per la mia femminilità. E voglio essere rispettata in tutto il mio essere femmina. Perché me lo merito.
[..] Sono femminile. Felicemente. Mi piacciono i tacchi alti ed il rossetto. E’ bello ricevere complimenti da uomini e donne (anche se, a essere onesta, preferisco i complimenti di donne che abbiano stile), ma spesso indosso abiti che gli uomini non apprezzano o non “capiscono”. Li indosso perché mi piacciono, e mi fanno sentire comoda. Lo “sguardo maschile”, come fattore delle mie scelte di vita, è largamente marginale.

La cultura non fa le persone. Le persone fanno la cultura. Se è vero che la piena umanità delle donne non fa parte della nostra cultura, allora noi possiamo e dobbiamo far sì che ne divenga parte.

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Dovremmo tutti essere femministi

 Di Chimamanda Ngozi Adichie

Okoloma è stato uno dei miei migliori amici d’infanzia. Abitavamo nella stessa strada, e si prendeva cura di me come un fratello maggiore: se mi piaceva un ragazzo, chiedevo a Okoloma la sua opinione. Okoloma era divertente e intelligente, e portava stivali a punta da cowboy. Nel dicembre del 2005, Okoloma è morto in un incidente aereo nel sud della Nigeria. Per me è ancora difficile esprimere a parole quello che ho provato. Okoloma era una persona con cui potevo discutere, ridere e davvero parlare. E’stato anche la prima persona che mi abbia definito femminista.

Avevo circa quattordici anni. Eravamo a casa sua e stavamo discutendo, entrambi sostenevamo argomenti approfonditi a metà, che venivano dai libri che leggevamo. Non ricordo esattamente l’argomento di questa particolare discussione. Ma ricordo di aver argomentato e argomentato, così a un certo punto Okoloma mi guardò e disse: “Sai, tu sei una femminista”.

Non era un complimento. Si capiva dal suo tono, lo stesso con cui una persona direbbe: “Tu supporti il terrorismo”.

Io non conoscevo esattamente il significato della parola femminismo, e non volevo che Okoloma lo capisse. Così glissai e proseguii nel battibecco. La prima cosa che intendevo fare appena tornata a casa era di cercare nel dizionario.

Ora saltiamo a qualche anno più tardi.

Nel 2003 scrissi un romanzo intitolato Purple Hibiscus su un uomo che, tra le altre cose, picchia sua moglie, e la cui storia non finisce troppo bene. Mentre stavo promuovendo il romanzo in Nigeria, un giornalista, un uomo bravo e benintenzionato, mi disse che mi doveva dare un consiglio (i nigeriani, come forse saprete, sono molto solleciti nel dare consigli non richiesti). Mi disse che il pubblico considerava I miei romanzi femministi, ed il suo consiglio era –e lo diceva scuotendo tristemente il capo– quello di non definirmi mai una femminista, perché le femministe sono donne infelici in quanto non riescono a trovare marito.

Così decisi di autodefinirmi una Femminista Felice.

Poi un’accademica nigeriana mi disse che il femminismo non faceva parte della nostra cultura, che il femminismo era non-africano, e che io mi definivo femminista perché subivo l’influenza dei libri occidentali  (il che mi faceva ridere, perchè gran parte delle mie letture giovanili era stata tutt’altro che femminista: credo di aver letto ogni singolo romanzo di Mills & Boon mai pubblicato prima dei sedici anni. Ed ogni volta che tento di leggere i “testi classici del femminismo” mi annoio molto, e devo fare uno sforzo per finirli).

A ogni modo, dato che il femminismo era “non-africano”, decisi che ora mi sarei definita una Femminista Africana Felice.

Poi un caro amico mi disse che il fatto di definirmi femminista significava che odiavo gli uomini. Quindi decisi che da allora sarei stata un Femminista Africana Felice che Non Odia gli Uomini e a cui Piace Indossare il Rossetto e i Tacchi Alti per Se Stessa e Non per gli Uomini.

Ovviamente molto di tutto questo fa ridere, ma mostra bene quanto la parola “femminista” sia pesante, e porti con sé un bagaglio negativo: tu odi gli uomini, tu odi i reggiseni, tu odi la cultura africana, tu pensi che le donne dovrebbero essere sempre impegnate, tu non ti trucchi, tu non ti depili, tu sei sempre arrabbiata, tu non hai senso dell’umorismo, tu non usi il deodorante.

Ora, ecco una storia della mia infanzia.

Quando frequentavo le elementari a Nsukka, una città universitaria della Nigeria sudorientale, la mia insegnante disse a inizio del semestre che avrebbe fatto un test d’ingresso, e chi avesse ottenuto il voto più alto sarebbe stato l’assistente della classe. Il ruolo di assistente era una gran cosa: in quanto assistente avresti avuto il compito di scrivere ogni giorno i nomi dei compagni che facevano rumore, il che dava già un certo potere. In più, la mia insegnante ti dava una canna di legno che potevi da tenere in mano mentre giravi per la classe sorvegliando i casinisti.

Naturalmente, non avevi il permesso di utilizzare la canna. Ma era una prospettiva davvero eccitante per una me novenne. Desideravo tanto essere l’assistente della classe. E ottenni il miglior punteggio al test.

Poi, con mia grande sorpresa, la mia insegnante disse che l’assistente doveva essere un ragazzo. Aveva dimenticato di chiarirlo prima; aveva dato per scontato che fosse ovvio. Un ragazzo aveva avuto il secondo voto al test, e divenne l’assistente.

La cosa più interessante è che quel ragazzo era un’anima dolce e gentile, che non aveva alcun interesse nel sorvegliare la classe con un bastone. Mentre io ero piena di quell’ambizione. Ma io ero femmina e lui era maschio, così diventò lui l’assistente della classe. Non ho mai dimenticato quell’episodio.

Se facciamo qualcosa di continuo, diventa normale. Se vediamo la stessa cosa ancora e ancora, diventa normale. Se solo i ragazzi ricevono l’incarico di assistente, ad un certo punto tutti penseremo, anche inconsciamente, che l’assistente della classe deve essere un ragazzo. Se continuiamo a vedere solo uomini ricoprire l’incarico di capi d’azienda, poi inizia a sembrare “naturale” che solo gli uomini possano essere capi d’azienda.

Spesso faccio l’errore di pensare che qualcosa che è tanto ovvio per me sia altrettanto ovvio per chiunque altro.

Prendiamo il mio caro amico Louis, un uomo brillante, progressista. Abbiamo una conversazione, e lui mi dice: “Non capisco cosa intendi quando dici che le cose sono diverse, e più dure, per le donne. Forse era così in passato, ma non più. Ora per le donne è tutto a posto.” Non riuscivo a capire come Louis non riuscisse a vedere qualcosa che mi sembrava così evidente.

Mi piace tornare a casa, in Nigeria, e passare il mio tempo a Lagos, la più grande città e centro commerciale del paese. A volte, nelle sere di grande caldo in cui la città prende un ritmo più lento, vado per ristoranti e caffè con i miei amici e familiari. Una di quelle sere, Louis e io eravamo fuori con gli amici.

C’è una magnifica istituzione a Lagos: un giovane uomo energico, che se ne sta fuori da un edificio o locale, e ti “aiuta” a parcheggiare l’auto in maniera molto teatrale. Lagos è una metropoli di quasi venti milioni di persone, con più energia di Londra, più spirito imprenditoriale di New York, perciò le persone se ne escono con qualsiasi tipo di attività per guadagnarsi da vivere. Come in tutte le grandi città, trovare parcheggio la sera può essere difficile, quindi questi giovani uomini avevano inventato un business nel trovare posti liberi e –anche quando c’erano abbastanza parcheggi– nel guidarti fino al tuo gesticolando, e promettendo di “tenere d’occhio” la macchina fino al tuo ritorno. Ero colpita dalla particolare teatralità dell’uomo che ci trovò parcheggio quella sera. Così, al momento di ripartire, decisi di lasciargli una mancia. Aprii la borsa, ci infilai la mano per prendere i soldi, e li diedi all’uomo. E lui, felice e pieno di gratitudine, prese i soldi da me, poi guardò Louis e disse: “Grazie, signore!”

Louis mi guardò sorpreso, e chiese: “Perchè ringrazia me? Non sono stato io a dargli i soldi.”  Subito dopo vidi sul volto di Louis che stava realizzando: quell’uomo credeva che i soldi che avevo nella mia borsa dovessero venire da Louis. Perché Louis è un uomo.

Uomini e donne sono differenti. Abbiamo ormoni differenti, differenti organi sessuali e differenti abilità biologiche –le donne possono avere bambini, gli uomini no. Gli uomini hanno più testosterone e sono, in generale, fisicamente più forti delle donne. Ci sono un po’ più donne che uomini nel mondo –il 52 per cento della popolazione mondiale è di sesso femminile, ma gran parte delle posizioni di potere e prestigio è occupata da uomini. La recente premio nobel keniana Wangari Maathai l’ha detto bene e chiaramente: “Più si sale in alto, meno donne ci sono.”

Nelle ultime elezioni americane, abbiamo sentito parlare di continuo della legge Lilly Ledbetter, e se andiamo oltre quel nome lezioso, si trattava infine di questo: negli Stati Uniti un uomo e una donna fanno lo stesso lavoro, con le stesse qualifiche, e l’uomo è pagato di più perché è un uomo.

Quindi, letteralmente, gli uomini governano il mondo. Questo aveva un senso mille anni fa. Perchè gli esseri umani vivevano in un mondo in cui la forza fisica era l’attributo più importante per la sopravvivenza; la persona fisicamente più forte aveva più probabilità di prendere il comando. E gli uomini, in generale, sono fisicamente più forti (ovviamente esistono delle eccezioni). Oggi, viviamo in un mondo ampiamente diverso. La persona più qualificata per comandare non è quella più forte fisicamente. E’ la più intelligente, la più competente, la più creativa, la più innovativa. E non ci sono ormoni che determinino questi attributi. Un uomo ha le stesse probabilità di una donna di essere intelligente, innovativo, creativo. Ci siamo evoluti. Ma le nostre idee sui generi non si sono molto evolute.

Poco tempo fa sono entrata nella lobby di uno dei migliori hotel della Nigeria, e una guardia all’ingresso mi ha fatto una serie di domande fastidiose: – Qual era il numero della stanza, e il nome della persona a cui facevo visita? Conoscevo questa persona? Potevo dimostrare di essere un’ospite dell’hotel mostrando la mia tessera chiave? – perché il presupposto automatico era che una donna nigeriana che entrasse da sola in un hotel fosse una prostituta.

Perchè una donna nigeriana sola non poteva essere un’ospite dell’hotel, e pagare per la propria stanza. Un uomo che entra nello stesso hotel da solo non viene infastidito. L’assunto, qui, è che lui abbia un motivo legittimo per essere lì (perchè, tra l’altro, quegli hotel non si concentrano sulla domanda di lavoratrici del sesso, anziché sulla apparente offerta?).

A Lagos non posso andare da sola in molti club e bar rispettabili. Non ti lasciano entrare, se sei una donna sola. Devi essere accompagnata da un uomo. Quidni, ho alcuni amici maschi che arrivano ad un club e finiscono per entrare sotto braccio a complete sconosciute perché quelle sconosciute, donne che escono da sole, non hanno altra scelta che chiedere un “aiuto” per entrare in un locale.

Ogni volta che in Nigeria entro in un ristorante con un uomo, il cameriere saluta l’uomo e ignora me. I camerieri sono il prodotto di una società che ha insegnato loro che gli uomini sono più iportanti delle donne, e io so che non hanno intenzioni cattive, ma una cosa è saperlo razionalmente, un’altra è elaborarlo a livello emozionale. Ogni volta che mi ignorano, mi sento invisibile. Mi infurio. Voglio dir loro che sono umana proprio quanto un uomo, giusto per loro informazione. Queste sono piccole cose, ma talvolta le cose piccole sono quelle che bruciano di più.

Di recente ho scritto un articolo su cosa significa essere giovane e donna a Lagos. E un conoscente mi ha detto che era un articolo arrabbiato, e non avrei dovuto farlo così arrabbiato. Ma non mi sono pentita. Certo che era arrabbiato! Il genere, per come funziona oggi, rappresenta una grave ingiustizia. Sono arrabbiata. Dovremmo tutti essere arrabbiati. La rabbia è storicamente stata un innseco per cambiamenti positivi. Ma io sono anche speranzosa, perché credo profondamente nell’abilità degli esseri umani di ricostruirsi, rendendosi migliori.

Ma torniamo alla rabbia. Ho sentito l’ammonimento nella voce di quel conoscente, e sapevo che il commento riguardava l’articolo tanto quanto il mio carattere.

La rabbia, diceva il suo tono, non è buona cosa per una donna. Se sei una donna, non devi esprimere rabbia, perché questo è minaccioso. Ho un’amica, una donna americana, che è subentrata ad un uomo in un incarico manageriale. Il suo predecessore  era stato considerato un rampante; era brusco e duro, e particolarmente severo sulle timbrature del cartellino. Lei iniziò il nuovo lavoro, immaginandosi ugualmente tosta, ma forse un po’più gentile di lui –il quale non aveva mai realizzato che le persone avessero delle famiglie, diceva. E così fece. Solo qualche settimana dopo aver iniziato, diede un provvedimento disciplinare ad un sottoposto per aver imbrogliato sulla timbratura del cartellino, proprio come avrebbe fatto il suo predecessore. In seguito il dipendente si lamentò con il management del suo stile direzionale. Era aggressiva, era difficile lavorare con lei, sosteneva il sottoposto. Gli altri dipendenti erano d’accordo. Uno disse che si aspettavano che lei portasse un “tocco femminile” al proprio lavoro, cosa che non aveva fatto.

A nessuno di loro è passato per la mente che stesse facendo le stesse cose per cui un uomo veniva invece apprezzato.

Ho un’altra amica, anche lei americana, che ha un lavoro ben pagato nella pubblicità. E’ una di due donne nel suo team. Una volta, a una riunione, si è sentita umiliata dal proprio capo, che aveva ignorato I suoi commenti e poi sposato posizioni similiari, ma espresse da un uomo. Lei avrebbe voluto farsi sentire, affrontare il capo. Ma non lo ha fatto.  Invece, dopo l’incontro, è andata a piangere in bagno, e poi mi ha chiamato per sfogarsi. Non ha voluto parlare chiaramente perchè non voleva apparire aggressiva. Così ha lasciato covare il proprio risentimento.

Quello che mi ha colpito –con lei e con molte amiche americane– è quanto importante fosse per loro “piacere”. Come siano state cresciute nella convinzione che piacere fosse così importante, e che questo tratto  consistesse in qualcosa di specifico. E questa specifica cosa non include mostrare rabbia o essere aggressive, o dissentire troppo sonoramente.

Passiamo troppo tempo a insegnare alle ragazzine a preoccuparsi di ciò che i ragazzi pensano di loro. Ma nell’altro senso non accade lo stesso. Non insegniamo ai ragazzini a preoccuparsi di piacere. Passiamo troppo tempo a dire alle ragazze che non possono essere arrabbiate o aggressive o toste, ma poi ci giriamo dall’altra parte, e apprezziamo o giustifichiamo gli uomini per quelle stesse ragioni.

Ovunque, nel mondo, ci sono montagne di articoli e riviste e libri, che dicono alle donne cosa fare, come essere o non essere per attrarre o compiacere gli uomini. Ci sono molte meno guide per uomini che vogliono compiacere le donne.

Tengo un workshop di scrittura a Lagos, e uno dei partecipanti, una giovane donna, mi ha detto che un suo amico le ha consigliato di non ascoltare i miei “discorsi femministi”; altrimenti avrebbe assorbito idee che avrebbero distrutto il suo matrimonio. Questa, nella nostra società, è una minaccia -la fine di un matrimonio, la possibilità di non avere affatto un matrimonio- che è molto più probabile sia usata contro una donna che contro un uomo.

Il genere fa la differenza ovunque nel mondo. E io oggi vorrei che noi iniziassimo a sognare e pianificare un mondo differente. Più giusto. Un mondo di uomini e donne più felici, che siano più sinceri con se stessi.

E si potrebbe cominiciare così: dobbiamo crescere le nostre figlie in modo diverso. Dobbiamo anche crescere i nostri figli in modo diverso.

Facciamo un pessimo servizio ai ragazzi, crescendoli come facciamo. Reprimiamo la loro umanità. Definiamo la mascolinità in un modo davvero ristretto. La mascolinità è una gabbia piccola e stretta, e noi mettiamo i ragazzi dentro questa gabbia.

Insegniamo ai ragazzi a temere la paura, la debolezza, la vulnerabilità. Insegniamo loro a mascherare la propria vera identità perché così dev’essere, in Nigeria, un uomo duro.

Alle superiori un ragazzo e una ragazza escono, entrambi teenagers con le loro magre paghette. Ma ci si aspetta che sia il ragazzino a pagare il conto, sempre, per dimostrare la propria mascolinità (poi ci domandiamo perché sia più frequente che I ragazzi rubino soldi ai propri genitori).

E se invece sia ai ragazzi che alle ragazze fosse insegnato a non collegare virilità e denaro? Se la loro attitudine non fosse più che “il ragazzo deve pagare”, ma invece “chi ha di più deve pagare”?

Ovviamente, a causa della loro storica posizione di vantaggio, sono gli uomini oggi ad avere più denaro. Ma se iniziamo a educare I bambini diversamente, allora in cinquant’anni, in cento anni, i ragazzi non subiranno più la pressione di dover dimostrare la propria virilità con mezzi materiali.

La peggior cosa, di gran lunga, che facciamo ai maschi, facendo sentire loro che devono essere dei duri, è che li lasciamo con ego molto fragili. Più un uomo si sente obbligato a essere duro, più debole sarà il suo ego. E facciamo un servizio ancora peggiore alle ragazze, perché le educhiamo a soddisfare il fragile ego dei maschi.

Insegniamo loro a restringersi, a farsi più piccole. Diciamo alle ragazze: “Puoi avere ambizione, ma non troppo. Dovresti puntare ad avere successo, ma non troppo, altrimenti farai sentire il tuo uomo minacciato. Se sei tu che porti il pane a casa, fai finta che non sia così, specialmente in pubblico, altrimenti lo farai sentire castrato.”

Ma che succederebbe se mettessimo in discussione le premesse? Perchè il successo della donna dovrebbe minacciare l’uomo? Se decidessimo di sbarazzarci di quella parola, e non so se ci sia una parola che mi piace meno di questa, castrazione. Un conoscente nigeriano una volta mi ha chiesto se fossi proccupata del fatto di poter intimidire gli uomini. Non sono affatto preoccupata, non mi è nemmeno mai successo di preoccuparmi, perché un uomo che possa essere intimidito da me è esattamente il tipo d’uomo che non mi interessa affatto.

Eppure, questo mi ha colpito. Essendo una donna, ci si aspetta che aspiri al matrimonio. Ci si aspetta che faccia le mie scelte tenendo sempre in mente che il matrimonio è la cosa più importante. Il matrimonio può essere una bella cosa, una fonte di gioia, amore e reciproco supporto. Ma allora perché insegniamo alle ragazze ad aspirare al matrimonio, e non facciamo lo stesso con i ragazzi?

Conosco una donna nigeriana che ha deciso di vendere la propria casa perché non voleva intimidire un uomo che voleva sposarla.

Conosco una donna nigeriana, non sposata, che quando va ad una conferenza indossa una fede, perché vuole che i suoi colleghi -così dice- la rispettino.

La cosa triste è che davvero un anello matrimoniale la renderà automaticamente più meritevole di rispetto, mentre non indossarlo la renderà più facilmente liquidabile, e questo accade in un posto di lavoro moderno.

Conosco giovani donne sottoposte a una tale pressione a sposarsi, da parte della famiglia, degli amici, anche del lavoro, che sono spinte a fare scelte terribili.

La nostra società insegna a una donna che ad una certa età non sia sposata a vedere questo fatto come un fallimento personale. Mentre un uomo di una certa età che sia ancora celibe è visto come uno che non ha ancora fatto la propria scelta. E’ facile dire: “Ma le donne possono dire di no a tutto questo.”

La realtà è più difficile, più complicata. Siamo esseri sociali. Interiorizziamo le idee che ci vengono dai nostri processi di socializzazione. Anche il linguaggio che usiamo ne è un riflesso. Il linguaggio del matrimonio è spesso un linguaggio di proprietà, non di collaborazione.

Usiamo la parola rispetto per qualcosa che una donna dimostra ad un uomo, ma raramente per qualcosa che un uomo dimostra ad una donna.

Sia uomini che donne dicono, “L’ho fatto per la tranquillità del mio matrimonio.”

Quando a dirlo sono gli uomini, in genere riguarda qualcosa che non dovrebbero fare comunque. Qualcosa che dicono agli amici in tono bonariamente esasperato, qualcosa che infine prova la loro virilità: “Oh, mia moglie dice che non posso andare nei club ogni sera, per cui ora, per la tranquillità del mio matrimonio, ci vado solo nei finesettimana.”

Quando una donna dice:  “L’ho fatto per la tranquillità del mio matrimonio”, è in genere perché ha lasciato un lavoro, un traguardo di carriera, un sogno.

Insegniamo alle ragazze che nelle relazioni, il compromesso è ciò che le donne più probabilmente dovranno accettare. Educhiamo le ragazze a vedersi le une le altre come concorrenti. Non per posti di lavoro o successi, che a mio parere potrebbe essere una buona cosa, ma per l’attenzione degli uomini. Insegniamo alle ragazze che non possono essere esseri sessuali alla stessa maniera dei ragazzi. Se abbiamo figli maschi, non ci interessa sapere delle loro fidanzate. E quando si tratta invece dei fidanzati delle figlie? Dio ci scampi! (ma naturalmente ci aspettiamo che portino a casa l’uomo perfetto per il matrimonio quando arriva il momento giusto).

Sorvegliamo le ragazze. Esaltiamo la verginità, ma non facciamo lo stesso coi maschi (e mi domando come dovrebbe funzionare in pratica, perché la perdita della verginità è un processo che generalmente coinvolge due persone di generi opposti).

Di recente una giovane donna ha subito uno stupro di gruppo in un’università nigeriana, e la risposta di molti giovani nigeriani, sia maschi che femmine, è stata qualcosa del tipo: “Sì, lo stupro è sbagliato, ma cosa ci faceva una ragazza in una stanza con quattro ragazzi?”

Cerchiamo, se possiamo, di dimenticare un attimo l’orribile disumanità di questa risposta. Questi ragazzi sono stati educati a pensare che le donne siano intrinsecamente colpevoli. E sono stati educati ad aspettarsi così poco dagli uomini, che l’idea di concepirli come esseri selvaggi privi di autocontrollo è in qualche modo accettabile.

Insegniamo alle ragazze a vergognarsi. Chiudi le gambe. Copriti. Facciamo credere loro che, solo per essere nate donne, sono colpevoli di qualcosa. E così le ragazze crescono, e diventano donne che non possono dire di provare desideri. Che si mettono in silenzio. Che non possono dire quello che pensano veramente. Che hanno fatto della simulazione una forma d’arte.

Conosco una donna che odia I lavori domestici, ma finge di amarli, perchè le è stato insegnato che per essere una  buona moglie, deve essere –per usare la parola nigeriana– casalinga. Poi si è sposata. E la famiglia del marito ha iniziato a lamentarsi del fatto che fosse cambiata. In realtà non è cambiata. Si è semplicemente stancata di fingere di essere qualcosa che non è.

Il problema del genere è che ci prescrive un modo di essere, anziché riconoscere quello che siamo.

Immaginate quanto più felici saremmo, più liberi di esprimere le nostre personalità, se non dovessimo portare il peso delle aspettative legate al nostro genere.

Ragazzi e ragazze sono innegabilmente diversi dal punto di vista biologico, ma la socializzazione esaspera queste differenze, e innesca processi di auto-soddisfazione. Prendiamo, ad esempio, il cucinare. Le donne, oggi, si occupano più frequentemente degli uomini dei lavori domestici, cucinare e pulire. Ma perché? Le donne sono forse nate con il gene della cucina, oppure perché negli anni sono state “socializzate” nel vedere quello del cucinare come il proprio ruolo?

Stavo per dire che forse le donne sono nate col gene della cucina, finchè non mi sono ricordata che la quasi tutti i cuochi più famosi al mondo, quelli a cui viene attribuito il titolo prestigioso di chef, sono uomini. Ho sempre guardato a mia nonna, una donna brillante, e mi sono chiesta cosa avrebbe potuto diventare se avesse avuto le stesse opportunità di un uomo in gioventù.

Oggi le donne hanno più opportunità che ai tempi di mia nonna, per un cambiamento nelle politiche e nelle leggi, il che è importantissimo. Ma ciò che conta ancora di più è la nostra attitudine, il nostro atteggiamento mentale. Che succederebbe se, nel crescere i nostri figli, ponessimo l’attenzione sulle abilità anziché sul genere?

Un famiglia di miei conoscenti ha un figlio ed una figlia, con una differenza d’età di un anno, entrambi brillanti negli studi. Quando il ragazzo è affamato, I genitori dicono alla ragazza: “Cucina degi spaghetti per tuo fratello”. Alla ragazza non piace cucinare gli spaghetti, ma deve farlo lo stesso.

E se i genitori, sin dall’inizio, insegnassero a entrambi i figli a cucinare? Cucinare è, peraltro, un’abilità utile e pratica per la vita di un ragazzo. Ho sempre pensato che non avesse alcun senso lasciare un’abilità così vitale, quella del proprio nutrimento, nelle mani di altri.

Conosco una donna che ha la stessa laurea e lo stesso lavoro di suo marito. Quando tornano da lavoro, lei deve fare la maggior parte dei lavori di casa, il che vale per la gran parte dei matrimoni, ma quello che mi stupisce è che ogni volta che lui cambia il pannolino al loro bimbo, lei gli dice grazie.

E se vedessimo come qualcosa di normale, e naturale, che lui si prendesse cura di suo figlio? Sto cercando di disimparare molte lezioni di genere che ho interiorizzato durante la crescita. Ma talvolta mi sento ancora vulnerabile di fronte alle aspettative di genere.

La prima volta che ho tenuto un corso di scrittura all’università ero preoccupata. Non dell’insegnamento in sé, perchè ero ben preparata e avrei insegnato qualcosa che amo. Invece ero preoccupata di cosa indossare. Volevo essere presa sul serio.

Sapevo che, in quanto donna, avrei automaticamente dovuto dar prova del mio valore. E avevo paura che, se fossi apparsa troppo femminile, non sarei stata presa sul serio. Volevo davvero mettere il mio lucidalabbra splendente e la mia camicetta femminile, ma ho deciso di non farlo. Ho indossato, invece, un completo molto serio, molto maschile, e molto brutto.

La triste verità è che, quando si parla di aspetto estetico, consideriamo gli uomini come lo standard, come la norma. Molti di noi pensano che meno femminile appare un donna, più ha possibilità di essere presa sul serio. Un uomo che si rechi a un incontro d’affari non si preoccuperà di non essere preso sul serio a causa del proprio abbigliamento, una donna invece sì.

Vorrei non aver indossato quel brutto completo, quel giorno. Se avessi avuto allora la sicurezza che ho adesso, i miei studenti avrebbero tratto maggior beneficio dai miei insegnamenti. Perché sarei stata più a mio agio, sarei stata pienamente e realmente me stessa

Ho scelto di non scusarmi più per la mia femminilità. E voglio essere rispettata in tutto il mio essere femmina. Perchè me lo merito. Mi piacciono la politica e la storia, e sono contenta quando posso dibattere ed esprimere le mie opinioni. Sono femminile. Felicemente. Mi piacciono i tacchi alti ed il rossetto. E’ bello ricevere complimenti da uomini e donne (anche se, a essere onesta, preferisco i complimenti di donne che abbiano stile), ma spesso indosso abiti che gli uomini non apprezzano o non “capiscono”. Li indosso perchè mi piacciono, e mi fanno sentire comoda. Lo “sguardo maschile”, come fattore delle mie scelte di vita, è largamente marginale.

Il genere non è un argomento facile di conversazione. Mette le persone a disagio, talvolta le irrita. Sia gli uomini che le donne hanno resistenze a parlare di differenze di genere, o sono rapidi a liquidare il problema. Alcune persone chiedono: “Perché usare la parola Femminista? Perché non dire semplicemnte che sostieni i diritti umani, o qualcosa del genere?”

Perché sarebbe disonesto.

Il femminismo, natualmente, fa parte dei diritti umani in generale, ma scegliere di utilizzare la vaga espressione “diritti umani” equivale a negare le problematiche specifiche e particolari legate al genere. Sarebbe un modo di fingere che non siano state le donne ad essere, per secoli, escluse. Sarebbe un modo di negare il problema, che il genere penalizza le donne. Che il problema è non degli esseri umani, ma precisamente dell’essere un essere umano femmina.

Per secoli, il mondo ha diviso gli esseri umani in due gruppi, e poi ha proceduto a escludere e opprimere uno di questi gruppi. E’semplicemente giusto che, nel cercare la soluzione al problema, se ne prenda atto.

Alcuni uomini si sentono minacciati dall’idea del femminismo. Questo viene, io credo, dall’insicurezza in cui I ragazzi sono allevati, per la quale il loro senso di autostima diminuisce se non sono “naturalmente” in posizione di comando in quanto uomini.

Altri uomini risponderanno che “Okay, è un concetto interessante, ma non la penso così. Io non penso mai alle tematiche di genere.” Forse no. E questo è parte del problema. Il fatto che molti uomini non pensino attivamente al genere, o non se ne accorgano neanche.

Che gli uomini dicano, come il mio amico Louis, che le cose possono essere andate male in passato, ma ora è tutto a posto. E che molti uomini non facciano nulla per cambiare tutto questo. Se sei un uomo ed entri in un ristorante ed il cameriere saluta solo te, hai mai chiesto al cameriere: “Perchè non hai salutato anche lei?”. Gli uomini dovrebbero far sentire la propria voce in tutte queste situazioni.

Visto che parlare di genere è scomodo, ci sono modi facili per chiudere la conversazione. Alcuni parleranno di biologia, evoluzione e scimmie, di come le femmine di scimmia si inchinino ai maschi, questo genere di argomenti. Ma il punto è: noi non siamo scimmie. Le scimmie vivono tra gli alberi e mangiano vermi. Noi no.

Alcuni diranno: “Anche gli uomini poveri sono discriminati”. Ed è così. Ma la conversazione riguarda qualcos’altro. Genere e classe sono cose differenti. Gli uomini poveri hanno sempre i privilegi dovuti all’essere uomini, anche se non hanno quelli dell’essere ricchi. Ho imparato molto sui sitemi di oppressione. Una volta stavo parlando di disparità di genere, e un uomo mi ha detto: “Perché dovrebbe dipendere dal fatto che sei donna? Perché non parli di te come essere umano?”. Questo tipo di domanda è un modo di zittire le esperienze specifiche di una persona. Certo che sono un essere umano, ma ci sono determinate cose che mi accadono, nel mondo, perché sono una donna.

Questo stesso uomo, tra l’altro, parla spesso delle proprie esperienze in quanto uomo nero (al che avrei potuto probabilmente rispondergli: “perché non racconti le tue esperienze in quanto essere umano? Perché parli di uomo nero?”). Quindi no, questa conversazione è effettivamente sul genere.

Qualcuno dirà: “Oh, ma le donne hanno il vero potere: il potere dal basso” (E’un’espressione nigeriana che significa che una donna utilizza la propria sessualità per ottenere cose dagli uomini). Ma il “potere dal basso” non è affatto potere. Una donna col “potere dal basso” non è potente, ha solo una scorciatoia per attingere al potere di un altro. E che succede se l’uomo è di cattivo umore, o temporaneamente impotente?

Qualcuno dirà che la donna è subordinata all’uomo perchè questo fa parte della nostra cultura. Ma la cultura cambia costantemente. Ho due meravigliose nipotine, gemelle, di quindici anni. Se fossero nate cento anni fa, sarebbero state rapite ed uccise. Perchè, cento anni fa, la cultura Igbo considerava la nascita di gemelli come un cattivo presagio. Oggi questa pratica appare inimmaginabile per tutte le persone di cultura Igbo.

La cultura, infine, funziona per assicurare la preservazione e la continuità di un popolo. Nella mia famiglia sono quella più interessata alla nostra storia, a quella delle nostre terre ancestrali, alle nostre tradizioni. I miei fratelli non hanno un simile interesse. Ma la cultura Igbo privilegia gli uomini, e solo i membri uomini della famigia estesa possono partecipare agli incontri in cui vengono prese le principali decisioni riguardo alla famiglia. Quindi, per quanto sia la più interessata a questi argomenti, non posso partecipare. Non ho una voce a livello formale. Perché sono una donna.

La cultura non fa le persone. Le persone fanno la cultura. Se è vero che la piena umanità delle donne non fa parte della nostra cultura, allora noi possiamo e dobbiamo far sì che ne divenga parte.

Penso molto spesso al mio amico Okoloma. Possa egli e tutti gli altri morti in quell’incidente aereo continuare a riposare in pace. Sarà sempre ricordato da coloro che lo hanno amato. E aveva ragione quel giorno, tanti anni fa, quando mi ha chiamato femminista. Io sono una femminista.

E quando, tutti quegli anni fa, cercai nel dizionario, la definizione era: “Femminista: una persona che crede nell’uguaglianza sociale, politica ed economica dei sessi”.

La mia bisnonna, stando alle storie che ho sentito, era una femminista. E’ fuggita dalla casa di un uomo che non voleva sposare, e ha sposato un uomo scelto da lei. Si è rifiutata, ha protestato, ha alzato la voce ogni volta che ha sentito che le veniva tolto l’accesso alla terra perché era una donna. Non conosceva la parola “femminista”. Ma quasto non significa che non lo fosse. Molti e molte di noi dovrebbero rivendicare quella parola. Il miglior femminista che conosca è mio fratello Kene, che è anche un giovane uomo gentile, bello e molto virile.  La mia personale definizione di “femminista” è: un uomo o una donna che dice “Sì, c’è un problema di genere oggi e dobbiamo risolverlo, dobbiamo fare meglio”.

Tutti noi, donne e uomini, dobbiamo fare meglio.

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