Il mercato del lavoro ai tempi del Jobs Act
Una crescita occupazionale “deludente” secondo le parole dell’OCSE, trainata dagli sgravi fiscali (insomma dai soldi nostri) secondo la Banca d’Italia, in cui si registra un aumento esponenziale dei Voucher e una più contenuta dell’apprendistato.
Il Jobs Act non ha creato lavoro, ha reso più facile assumere in una maniera conveniente per le imprese: cioè precarissima e ricattabile. Ed è per questo che le stesse istituzioni che ne certificano il fallimento continuano a rinnovarne l’appoggio: perché ha reso i lavoratori più deboli e divisi, succubi del dispotismo dei datori di lavoro.
Una volta eliminate le distorsioni del governo e della grancassa mediatica al suo seguito, dai dati emergono infatti alcune chiare indicazioni. Vediamo di sintetizzarle: nell’insieme si tratta di sottolineare i modesti effetti sulla dinamica dei nuovi occupati e, per altro verso, il ruolo giocato dal Jobs Act, dopo diversi anni di crisi, nell’ulteriore deterioramento della qualità dell’occupazione.
Sul primo punto c’è poco da dire. In effetti, il governo è rimasto solo a magnificare i risultati della riforma. Dall’UE, all’Ocse e fino alla BCE sono arrivati nelle ultime settimane chiari segnali di un netto ridimensionamento della capacità di stimolo alla crescita occupazionale: l’incremento dei posti di lavoro in Italia, nel bel mezzo della presunta “rivoluzione copernicana”, è stato debole e inferiore a quello degli altri paesi dell’UE, deludendo così le attese.
Dagli inizi degli anni novanta nella agenda di riforma del mercato del lavoro italiano e europeo l’Ue, la BCE e l’OCSE promuovono iniziative nella riforma del governo, prima fra tutte la definitiva eliminazione di qualsiasi protezione contro i licenziamenti. Com’è noto, peraltro, le ricette in questione nel tempo non hanno dato alcuna prova della loro efficacia.
Da tutte le rilevazioni – Istat, Inps e Ministero del Lavoro – emerge come dall’attuazione della riforma la segmentazione del mercato del lavoro e con essa il precariato si siano accentuate. È cresciuta cioè la quota di lavoratori a tempo determinato; il lavoro si precarizza sempre più anche in virtù del massiccio utilizzo del lavoro accessorio. In tal senso, l’esplosione del fenomeno è documentata dalla inarrestabile crescita nell’utilizzo dei voucher, per sua natura lavoro poco qualificato; la disoccupazione giovanile rimane a livelli impressionanti e, come emerge dagli ultimi dati Istat relativi ad agosto, la nuova occupazione nei primi otto mesi del 2016 continua a essere concentrata quasi per intero sugli over 50.
I dati del Ministero forniscono poi ulteriori spunti. In primo luogo, nel secondo semestre aumentano significativamente su base annua (+7,4%) i licenziamenti tra le cause di cessazione dei rapporti di lavoro. Mentre diminuiscono le cessazioni per richiesta del lavoratore (-25%). A ciò si aggiunga che, in parallelo con la diminuzione dell’utilizzo di contratti a tempo indeterminato, si assiste a una sensibile crescita delle attivazioni in apprendistato (+26%) che, in virtù delle misure di incentivo previste – tra l’altro – dal programma Garanzia Giovani, godono di sostanziosi bonus per le assunzioni. Il collegamento tra i due fenomeni appare chiaro: si tratta di una strategia di risparmio (salariale e contributivo) da parte delle imprese, con un effetto di sostituzione dei contratti a ‘tutele crescenti’ in una fase in cui gli sgravi per le assunzioni si sono notevolmente ridotti.
A vedere i risultati di GG dopo più di due anni dalla sua attuazione questo quadro viene confermato in toto: i contratti di lavoro – spesso precari e che permettono alle imprese che assumono di godere di un bonus occupazionale – raggiungono appena il 5% degli iscritti al programma, mentre una quota assai più elevata di «misure» erogate ai partecipanti si concretizza in tirocini extracurriculari e altre forme di lavoro sottopagato – ovviamente precario – e sovvenzionato con fondi pubblici.
Tirando le somme, non è difficile vedere quali siano le principali implicazioni del Jobs Act: un mercato del lavoro in cui si generalizza la ricattabilità e con essa la disciplina e il controllo sul lavoro. In cui si restringono per i lavoratori i margini di organizzazione e mobilitazione e aumentano sensibilmente, al contrario, i margini per il dispotismo delle imprese. Insomma un quadro caratterizzato dalla chiara volontà di imporre riduzioni salariali, aumenti dei carichi e dell’intensità del lavoro.