SIAMO ANCORA QUA
A prenderci cura di…
Ho provato a scrivere di finanza, ma proprio la pancia sta altrove.
Riaprire il nostro appuntamento significa guardare all’estate ormai finita.
Davanti agli occhi adesso ho l’immagine sorridente di due compagne alla manifestazione per la GKN. Anzi, una di loro è una delle nostre sindacaliste più attive in questa vertenza: Laura Scalia; la didascalia della foto dice “hanno vinto”.
Ecco, hanno vinto, queste donne hanno vinto. Insieme agli operai GKN, esclusivamente uomini, sono scese in protesta le donne: mogli, compagne e anche figlie, che hanno costituito un coordinamento donne della GKN. Ma come? Non ci sono operaie li e si crea un coordinamento donne? Eppure… eppure quando si tratta di lottare le donne sono pronte, perché GKN è roba loro, è roba nostra. I coordinamenti donne, che spesso sono bistrattati e considerati alla stregua di aree gioco per signorine (se giocano tra loro, non danno fastidio dove si fanno le cose importanti) o, all’opposto, un covo di frustrate femministe è, invece, più che mai un luogo di elaborazione, contatto e lotta da cui la nostra organizzazione non può prescindere.
Ma sono arrivata all’immagine della GKN cercando le parole per descrivere ciò che non mi abbandona ormai da settimane: il destino delle donne afghane.
Dall’Afghanistan arrivano notizie e immagini terribili, la situazione purtroppo peggiora di ora in ora, donne e bambini stanno pagando il prezzo più alto di questa crisi. Non si può restare indifferenti di fronte a tanta sofferenza e far finta che tutto questo non ci riguardi direttamente.
Di ieri la notizia della conversione del “Ministero Per gli Affari Femminili” – creato dopo il rovesciamento del precedente regime dei talebani nel 2001 per coordinare le politiche di educazione e sviluppo per le donne – nella sede del nuovo “Ministero per la Guida e Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio”. E’ una riedizione della struttura pubblica a cui – dal 1996 al 2001 – il Mullah Omar aveva assegnato la responsabilità di: punire le donne che uscivano di casa senza avere indosso un burqa e senza essere accompagnate da un parente maschio; proibire alle donne di continuare a studiare dopo le elementari e di lavorare; lapidare le coppie accusate di “adulterio”. Che schifo, ma anche terrore per ciò che significa.
Sento un senso di prigionia, oltre al dolore, al pensiero di queste donne, invisibili nei loro burqa, respinte nell’oscurità del Medioevo, sottoposte a regole disumane e fuori dalla storia per ciò che riguarda ogni minimo diritto, dall’educazione, alla vita affettiva, dalle minime scelte personali, alla loro indipendenza.
La domanda urgente è: cosa possiamo fare? Portarle via da li, salvarle tutte. Ma questa non è una risposta, non è la soluzione: è semplicemente impossibile.
E allora come? Allora chi?
Prima che le loro vite escano dai radar dell’emotività mediatica, dobbiamo fare nostra la necessità di lottare con e per loro.
Tutte insieme dobbiamo dare visibilità e voce a coloro che vengono messe a tacere, evitare che la storia afghana si trasformi in mancanza di coscienza per noi occidentali. Noi qui possiamo fare molto per tenere viva l’attenzione. Solo cambiando le coscienze infatti possiamo cambiare le cose.
Qui dobbiamo sentire ogni donna, rimasta prigioniera del buio, una sorella con e per cui lottare.
Dobbiamo fornire sostegno in ogni modo a chi ancora riesce ad operare direttamente nel territorio.
Sostegno significa non solo idee e consapevolezza qui, ma anche soldi e risorse da investire lì in questa battaglia.
Negli ultimi vent’anni una nuova generazione di giovani donne afghane si è istruita, ha intrapreso carriere, spesso incoraggiata da ONLUS e organizzazioni occidentali. E’ necessario dare a questo patrimonio di competenze e potenzialità, in sostanza la classe dirigente femminile di un Paese che si è disperso in tutto il mondo, uno spazio politico. I Paesi che hanno accolto questo enorme patrimonio hanno il dovere morale di prendersi cura di quelle competenze, di quelle professionalità, di coltivare quei sogni di libertà ed emancipazione, per farne non semplicemente un simbolo, ma per renderlo parte integrante di un futuro diverso per l’Afghanistan e le sue donne.
Tutto questo non deve essere un tema contingente, ma deve guardare al domani, alla società che vogliamo essere. Non si può lasciar morire la speranza di un futuro diverso, oltre a un presente crudele ed ottuso, per donne e uomini ai quali siamo stati noi stessi a infondere una speranza nuova.
E siccome la speranza da sola non basta, noi dobbiamo lottare, noi dobbiamo fare ciò che alle compagne afghane non è più permesso: alzare la voce e metterci la faccia.
E allora torniamo in piazza.
L’Assemblea della Magnolia, rete di associazioni e realtà diverse di cui la Cgil fa parte, chiama tutte e tutti in piazza, sabato 25 settembre, per dare forza e corpo alla “rivoluzione della cura”: un grido forte per chiedere investimenti decisi su lavoro, welfare, condizione femminile e contrasto alla violenza.
“Chiediamo che le risorse del PNRR, che tutte le nuove leggi che il governo ha annunciato, dal fisco al lavoro, dall’ambiente al welfare guardino anche alle donne e che vengano destinate a curare il mondo, a ripianare (e non accentuare) le disuguaglianze, le ingiustizie, a dare risposte a chi nella pandemia e nella crisi ha pagato il prezzo più alto. Tutte le donne/ tull quadze scendono in piazza anche per le donne afghane, perché l’Afghanistan è il tragico specchio del cinismo di tutti i poteri che ha sacrificato conquiste di libertà e diritti sullo scacchiere della geopolitica”.
TULL QUADZE/TUTTE LEDONNE
Per Loro, ma anche per Noi.
A cura di Anna Maria Romano