Inform@fisac giugno 2017

 

MBO?

 

E’ politica di molte aziende, tra cui le banche, di inserire sistemi variabili di retribuzione attraverso forme premianti.
Se della partecipazione agli utili abbiamo già ampiamente parlato (v. Informafisac 3/16 II), valutando i pro e i contro di tale istituto, ragioniamo su uno strumento molto in voga (qualche anno fa) che è l’ MBO.
Acronimo preso a prestito dalla lingua inglese il management by objectives, MBO appunto, si propone di fornire una formula per cui si gestisce il lavoro allo scopo di ottenere determinati obiettivi, al raggiungimento dei quali si verifica un premio, generalmente di tipo economico.
Secondo la più classica formulazione, un sistema mbo deve essere costruito secondo un particolare criterio dell’ assegnazione degli obiettivi, che devono essere SMART.
Si definisce S.M.A.R.T. un obiettivo:

  • Specifico, cioè che non lascia spazio ad ambiguità;
  • Misurabile senza equivoci e verificabile in fase di controllo;
  • raggiungibile (dall’inglese Achievable), poiché un obiettivo non raggiungibile demotiva all’azione allo stesso modo di uno facilmente raggiungibile;
  • Rilevante da un punto di vista organizzativo, cioè coerente con la mission aziendale;
  • definito nel Tempo.

Esistono anche obiettivi di tipo NUM cioè Non Univocamente Misurabili, hanno in comune con gli obiettivi SMART tutte le caratteristiche, tranne la misurabilità.
Esempi di obiettivi NUM sono quelli legati allo sviluppo di una conoscenza, di una competenza o all’adozione di specifici comportamenti aziendali.

In senso tecnico, un modello MBO, non può essere considerato un semplice sistema premiante, perché l’adozione della gestione per obiettivi richiede una stretta integrazione tra il sistema di pianificazione e controllo, il sistema di valutazione del personale, il sistema incentivante.

Anzi, si può dire che in effetti questo è un metodo di valutazione del personale che si basa sui risultati raggiunti a fronte di obiettivi prefissati.

Gli obiettivi sono generalmente individuali ma possono essere anche di gruppo. Il periodo assegnato per il raggiungimento è normalmente di un anno, all’interno del quale sono previsti uno o più momenti di verifica. In caso di mancato raggiungimento degli obiettivi, è necessario individuare e analizzare le cause per porre rimedio ad eventuali ostacoli.

La gestione per obiettivi è utile ad ottenere la massima partecipazione dei lavoratori di un’ azienda al conseguimento dei risultati aziendali, ribaltando però sugli stessi la responsabilità del risultato stesso o almeno in buona parte. Si tratta di un processo complesso che parte dalla definizione degli obiettivi strategici aziendali per poi definire obiettivi operativi di settore, da cui discendono, poi piani di azione di squadra ed infine in obiettivi individuali.

Apparentemente l’ Mbo sviluppa i seguenti vantaggi:
Favorisce la motivazione coinvolgendo attivamente i dipendenti e responsabilizzandoli, e ciò dovrebbe aumentare la soddisfazione e l’impegno sul lavoro. Migliora il clima aziendale.
La comunicazione tra responsabili e collaboratori aiuta a mantenere relazioni migliori all’interno dell’organizzazione e ad aumenta le sinergie per risolvere problemi e condividere proposte utili.
La gestione del personale è orientata alla costruzione di uno stile omogeneo e di un migliore utilizzo dei lavoratori, anche attraverso il fabbisogno formativo, per migliorare la performance.
Tutto bene, quindi.
Ma è proprio così?
L’ MBO diventa popolare negli anni ’50 del secolo scorso ( Peter Drucker, 1954 The Practice of Management) ma già studi sui sistemi di rewarding erano iniziati negli anni ’40, con particolare riferimento agli aspetti di logica motivazionale.

I sistemi di rewarding tendono a favorire l’emergere di una motivazione controllata e di tipo estrinseco, cioè legata ad aspetti oggettivi più consoni ad un obiettivo standard;
la motivazione intrinseca sarebbe invece generalmente associabile solo agli hobby e alle attività che procurano un piacere personale nel realizzarle, in quanto è collegata una forte componente soggettiva, perciò non misurabile su questi standard.

Questo modo di concepire la motivazione nel lavoro ha certamente un fondo di verità ma è fortemente influenzata dalla cosiddetta Teoria X di Douglas McGregor.
Mcgregor professore in management alla MIT Sloan School of Management è contemporaneo di Abraham Maslow (quello della piramide dei bisogni n.b.), ed ha contribuito molto agli studi gestionali ed alle teorie motivazionali.
La Teoria X prevede che le persone lavorino solo per necessità e abbiano bisogno di essere costantemente stimolate affinché dedichino adeguati sforzi al lavoro.
In antitesi alla Teoria X, McGregor aveva sviluppato una teoria Y, in base alla quale le persone ritengono il lavoro un ambito naturale e sono in grado di auto-controllarsi nel perseguimento degli obiettivi in cui sono coinvolte; quest’ ultima teoria sarebbe una applicazione pratica della scuola di psicologia di Maslow applicata ai modelli organizzativi.
Tuttavia, questa seconda teoria è sempre stata considerata una sorta di utopia, forse persino dallo stesso McGregor, in quanto basata su concetti prettamente scientifici ma non applicabili nella realtà che prevedono un’ etica superiore e un insieme di valori morali molto al di là di quelli reali (E. Schein – G. Cleverley).

Non si possono non considerare, inoltre, gli studi di W. Edwards Deming sull’ argomento, volti a dimostrare gli aspetti negativi dell’ MBO.
Deming sostiene che gli obiettivi incoraggino alcune persone a raggiungerli attraverso qualsiasi mezzo. Inoltre un sistema premiante può spingere i manager con capacità di leadership (e quindi abili a gestire un gruppo di lavoro) a concentrare le proprie energie principalmente sul raggiungimento degli obiettivi individuali.
Questi individui, senza troppi scrupoli, tenderebbero a focalizzare le loro azioni principalmente sugli obiettivi, trascurando la normale attività.
Infine, un sistema MBO riesce a porre l’attenzione soltanto sul breve termine, in quanto gli obiettivi, pur definiti in origine sono misurabili solo una volta ottenuti. Ciò focalizzerebbe le aziende ad orientarsi verso l’efficienza settoriale a breve ed impedirebbe, di fatto, di orientarsi verso obiettivi strategici più a lungo termine.
Con la crescente instabilità economica mondiale, questa mancanza è diventata sempre più critica e penalizzante per quelle aziende che riescono ad avere sistemi di gestione solo settoriali e non sistemici.
Rimane, di Deming, famosa la teoria, sostenuta spesso dai suoi fautori giapponesi, cosidetta: ‘a’- versus-‘b’:
dove a è quando le persone e le organizzazioni si concentrano principalmente sulla qualità, definita dal seguente rapporto, Qualità = Risultati degli sforzi di lavoro/Costi totali.
Tende ad aumentare la qualità e la caduta dei costi nel corso del tempo,

in b invece le persone e le organizzazioni si concentrano principalmente sui costi (spesso fattore dominante / tipico comportamento umano), i costi tendono ad aumentare e la qualità diminuisce con il tempo.

Recenti ricerche sul legame tra motivazione e performance hanno ripreso e avvalorato una serie di studi del passato che, per molti anni, sono stati quasi completamente ignorati dalla dottrina e mai sperimentati seriamente nelle organizzazioni.

Questi nuovi studi dicono che puntare su forme di motivazione estrinseca, nell’alveo della teoria X, può determinare una riduzione dell’impegno e delle performance personali.

Questo filone di studi ha origini antiche. Il primo studio, assolutamente innovativo per i tempi, è stato sviluppato dallo psicologo Harry Harlow nel 1949.
In un celebre e discusso esperimento con primati, Harlow diede dei rompicapo ad alcune scimmie ed osservò le loro reazioni.
In mancanza di stimoli esterni, lo psicologo vide che le scimmie giocavano con i rompicapo con attenzione, trasporto e determinazione. Poi Harlow provò a ricompensare con uva passa le scimmie che risolvevano i rompicapo e sorprendentemente osservò un maggior numero di errori nella soluzione e una minore attitudine al problem solving.

Negli anni ’70 Edward Deci riprese l’ ormai dimenticato studio di Harlow e provò a riprodurre l’esperimento su scala umana. Ad alcuni studenti universitari vennero proposti i test prima senza e poi in cambio di ricompense in denaro. la conclusione fu la stessa: le ricompense monetarie diminuiscono la motivazione intrinseca a svolgere un’attività di soluzione di puzzle.

Anche il lavoro di Deci venne dimenticato per diversi anni senza avere impatti significativi nel mondo aziendale.
Oggi però i suoi studi sono tornati alla ribalta, grazie soprattutto ad una ricerca condotta da Dan Ariely, Uri Gneezy, George Lowenstein e Nina Mazar (Large Stakes and Big Mistakes), e dall’attività divulgativa svolta da Daniel Pink con il suo bestseller “Drive – The Surprising Truth About What Motivates us”.
Ariely e colleghi hanno dimostrato sperimentalmente che incentivi troppo elevati possono avere effetti perversi sulle performance e deteriorarle anziché migliorarle.
Una parte degli esperimenti dei ricercatori si è svolta in un villaggio dell’India. Venivano offerte ricompense in denaro ai partecipanti ad un test, ai quali veniva richiesto di risolvere dei problemi che richiedevano competenze, concentrazione e creatività. Il premio era proporzionale ai risultati.

I partecipanti al test sono stati suddivisi, a loro insaputa, in 3 gruppi. Per alcuni il premio era stato fissato a 2400 rupie, una paga molto alta corrispondente a sei mesi di stipendio medio. Gli altri due gruppi avevano un premio molto più basso, rispettivamente di 24 e di 240 rupie.
Il test ha ottenuto il seguente risultato:
i soggetti che avevano la possibilità di intascare 2400 rupie hanno ottenuto una performance significativamente peggiore degli altri due gruppi.
A parità di compito solo il 20% di loro è riuscito ad ottenere il punteggio massimo.
Nei gruppi con un premio inferiore, oltre il 35% dei partecipanti ha invece ottenuto il massimo. I ricercatori, pensando a logiche legate all’ ambiente ed alla condizione sociale dei partecipanti, hanno deciso di realizzare esperimenti simili ma più complessi e raffinati con gli studenti universitari, per confrontare i risultati col primo studio.
Questa volta il test per gli studenti era su due postulati di diversa difficoltà.
Una prima parte del test consisteva nella risoluzione di problemi matematici, un’altra nella semplice digitazione dei tasti “n” e “y” sulla tastiera il maggior numero di volte in 4 minuti. Un gruppo poteva ottenere al massimo 30 dollari e l’altro 300 dollari. I risultati furono molto simili a quelli ottenuti in India.
Nei i test matematici, nel gruppo ricompensato con 30 dollari, il 60% dei partecipanti ha dato risultati eccellenti, nel gruppo con il premio da 300 dollari solo il 40% ha raggiunto l’eccellenza.
Risultati opposti si sono evidenziati nei test di digitazione: nel gruppo con incentivazione da 300 dollari la quota dei top performer raddoppiava dal 40 all’80%.

Questi risultati hanno indotto i ricercatori ad affermare che nei lavori in cui occorre concentrazione e creatività, gli incentivi possono distrarre e penalizzare la performance finale.
Al contrario, nei lavori più ripetitivi in cui conta la crescita delle produttività personale, premi crescenti possono avere impatti positivi sulla motivazione e le performance dei lavoratori.

Nei sistemi di rewarding quindi, la motivazione e la performance delle persone, dipenderebbe molto dall’entità del premio e dal tipo di lavoro che occorre compiere. Aumentare il peso della retribuzione variabile correlata ad un obiettivo potrebbe ridurre significativamente la capacità di una persona di raggiungerlo.

Le ragioni sono sostanzialmente due.

In primis, una forte pressione su un obiettivo il cui raggiungimento non comporta un lavoro ripetitivo può generare quella che gli psicologi definiscono “fissità cognitiva”, cioè la tendenza a concentrarsi eccessivamente sulle vie dirette, lineari, per il raggiungimento del risultato, senza cercare alternative, magari meno immediate, ma più efficaci. Tale pressione renderebbe le persone a non prestare attenzione ai cambiamenti di contesto non direttamente correlati al risultato da raggiungere, producendo la sottovalutazione di soluzioni efficaci e, soprattutto, può portare le persone ad essere totalmente sorprese dall’evolversi della situazione e del contesto entro il quale devono operare, non sapendo però come fronteggiare il cambiamento.

La seconda ragione ha a che fare con le nostre caratteristiche antropologiche.

Gli esseri umani hanno il bisogno primario di essere autonomi, di essere liberi. Le tipiche forme di incentivazione aziendale tendono a limitare i gradi di libertà degli individui, forzando le loro azioni in un contesto prestabilito.

Le nuove teorie motivazionali sembrano quindi smontare le fondamenta di molte prassi abituali nelle aziende. Per prima, quella che prevede di elargire premi variabili crescenti in proporzione al ruolo aziendale e alla difficoltà dell’obiettivo da raggiungere. Oggi è noto che questo potrebbe ostacolare, anziché favorire, il raggiungimento di questi obiettivi.

Al contrario, per lavori più routinari, dove la parte variabile della retribuzione è minima e viene elargita in forme uguali e collettive, i recenti studi su performance e motivazione dicono che una crescita del peso dell’incentivo economico potrebbe portare ad un significativo aumento di produttività e motivazione personale.

La nuova metodologia proposta per superare i limiti dell’MBO prende il nome di Management By Performances (MBP): qui è possibile collegare la strategia aziendale all’ operativa più stretta in quanto, questo strumento permette di misurare gli obiettivi ritarandoli sui risultati conseguenti dalla strategia aziendale, l’ obiettivo cioè è modulato sulla performance e non viceversa, perciò in linea con gli obiettivi strategici prefissati, vengono apportati tutti i correttivi di miglioramento in corso d’ opera per il raggiungimento delle strategie stesse.

Tuttavia anche questo modello non si esenta, o comunque non del tutto, dalle ricadute psicologiche derivanti dai modelli di forwarding.

Quando si parla di motivazione in azienda, domina ancora la vecchia teoria del bastone e della carota. John Whitmore, uno dei padri del coaching si è ben espresso al riguardo: “Il bastone e la carota sono motivatori pervasivi e persuasivi. Ma se tratti le persone come asini, otterrai una performance da asini.”

 

Claudio Zucchi, Rsa Modena

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