In questi giorni, giornali e media riportano spesso notizie sulle ricerche, sinora vane, di Saman Abbas, la ragazza pakistana scomparsa dopo aver rifiutato un matrimonio combinato.
In realtà, non c’è certezza su cosa le sia realmente accaduto: i genitori sostengono che sarebbe scappata in Belgio, mentre gli inquirenti sospettano che sia stata vittima di una vendetta familiare, di una specie di “delitto d’onore” ante litteram.
Le reazioni di fronte alla notizia – e all’ipotesi che possa effettivamente trattarsi di un delitto di sangue – sono state e possono essere diverse: in primo luogo si prova forse una sensazione di estraneità, come se la vicenda non riguardasse “noi” italiani, ma una cultura diversa, più repressiva nei confronti delle donne, con pregiudizi e schemi ormai (anche se relativamente da poco) superati nel nostro Paese.
In realtà, non è così: se si guarda da una diversa prospettiva, si tratta dell’ennesimo episodio di violenza sule donne, trattate, soprattutto dai propri familiari, come proprietà privata, come soggetti che devono obbedire alle regole della famiglia e che se si ribellano, manifestando una propria individualità, sono passibili della più atroce delle punizioni, ovvero la morte, per mano di chi credevano le amasse e fosse lì per proteggerle; sia questo un genitore, un marito, un fratello, uno zio…
Né più né meno di una moglie che “osa” ripudiare il marito, e rivendicare la propria libertà, Saman si è resa “colpevole” di autodeterminazione, ha provato a emanciparsi, a sentirsi libera, ed è stata punita come, purtroppo e tristemente, tante, troppe, donne, occidentali ed italiane.
Ancora: Saman è l’emblema di un’integrazione mancata; dimostra come nonostante dieci anni trascorsi in Italia, suo padre non sia riuscito ad integrarsi (come invece lei avrebbe voluto e stava riuscendo benissimo a fare) in una società che, con ogni probabilità, lo ha comunque tenuto ai margini, senza nessun tentativo di mediazione tra culture così differenti su ambiti fondamentali della vita individuale di ognuno.
In entrambi i casi, si tratta di un gap culturale, e di una mancanza (intesa come colpevole omissione) della società di cui facciamo parte: invece di sentirci superiori o distanti da questa storia, dovremmo forse trarne quale insegnamento, qualche spunto, per riflettere su quanto lavoro ci sia ancora da fare nell’educare alla parità di genere ed al rispetto delle diversità ma anche in termini di integrazione ed ascolto del disagio delle minoranze..
Tutto questo, sperando – a dispetto di quanto sembra comunque più verosimile – che Saman sia viva, e stia sorridendo felice della sua meritata (ma che dovrebbe dirsi innata) libertà.
Esecutivo Donne Fisac- CGIL Campania