di Susanna Camusso e Esmeralda Rizzi – da Collettiva.it
Una débacle che sarebbe un po’ troppo semplicistico attribuire alla crisi pandemica la quale, semmai, ha avuto la funzione di far precipitare ed esacerbare criticità già in essere: la cronica difficoltà a conciliare vita familiare e cura soprattutto dopo la maternità, come dimostrano le dimissioni volontarie delle lavoratrici in crescita o il cortocircuito dad/smart working, il lavoro irregolare e sommerso, la precarietà, le mancate progressioni di carriera, il differenziale salariale. Un Piano straordinario con risorse imponenti avrebbe dovuto puntare a risultati ambiziosi e significativi per l’occupazione femminile come prendere a obiettivo il tasso medio europeo che si attesta oltre il 60% a fronte del 49% italiano (che nel Mezzogiorno e nelle isole precipita tra il 32 e il 33%) e provare a incidere anche dal punto di vista culturale per spazzare via quelle dinamiche che alimentano l’emarginazione e la segregazione delle donne dai e nei luoghi di lavoro.
Per imporre un deciso cambiamento sarebbe stato quindi necessario un investimento straordinario nei servizi educativi per la fascia 0-6 anni. Il Pnrr, così ambizioso in altri settori, si pone invece come obiettivo quel 33% di servizi individuato oltre 20 anni fa (!) dalla Strategia di Lisbona. Senza contare i continui riferimenti del Piano al Family act che prevede bonus e detrazioni di varia natura come sostegno alle famiglie anche per il pagamento delle rette dei servizi 0-6 che, per essere davvero alla portata di tutte le famiglie e incidere nel cambiamento dovrebbero, invece essere educativi, pubblici e strutturati seguendo le stesse modalità dell’istruzione primaria.
Assenti poi nel Piano, e anche nel lessico impiegato, quelle misure che dovrebbero incidere sull’aspetto culturale della segregazione occupazionale femminile. Si continua infatti a parlare di conciliazione nonostante ormai da anni da più parti si chieda che si parli e si operi per la condivisione del lavoro di cura. Nella missione 1 per esempio, la trasversalità dell’occupazione femminile viene evocata a proposito dello smart working nella pubblica amministrazione come misura a sostegno della conciliazione, dando per implicito quindi che le donne lavorando da casa possano più agevolmente occuparsi dei figli.
Ancora, mentre vengono confermati i progetti per favorire l’accesso alle materie Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics, ndr) sono spariti quelli per la formazione contro gli stereotipi, il riconoscimento e la valorizzazione delle diversità, senza i quali anche le stesse ambizioni sulle Stem rischiano di incagliarsi. E sul congedo di paternità obbligatorio che sarebbe misura culturalmente davvero dirompente, ci si accontenta anche qui del recente aumento a 10 giorni, lontanissimi dalle 16 settimane spagnole, dai modelli scandinavi ma anche da quello tedesco e dai 28 giorni francesi.
Che culturalmente il Pnrr non riesca purtroppo a compiere quel salto indispensabile a stravolgere le dinamiche italiane della crisi dell’occupazione femminile, lo testimoniano poi le previsioni sull’impatto delle singole missioni sulla priorità trasversale “donne” – parte 1 punto 6 del Pnrr – che, anzi, le riproducono e ribadiscono, confermando come settori a privilegiata occupazione femminile quelli del lavoro di cura e dell’assistenza, della ristorazione, alberghiero, del turismo e della cultura. Ingegnere, scienziate, ricercatrici o economiste, secondo le previsioni del Pnrr, non servono all’Italia. Un bug che inficia anche l’introduzione pur positiva del “condizionare l’esecuzione dei progetti all’assunzione di giovani e donne”, ma che senza la previsione di obiettivi determinati, rischia di essere solo un’idea, un’enunciazione effimera come rischiano di esserlo anche i “bollini” e gli standard autocertificati: misure potenzialmente utili solo se collegate a sistemi sanzionatori o a fortemente premiali, diversamente solo parole.
Complessivamente manca al Pnrr il presupposto che per superare una condizione di diseguaglianza consolidata: vanno introdotte discriminazioni positive senza le quali le differenze esistenti non spariscono, anzi, si consolidano. Nella stesura del Piano è quindi evidente come sia mancata o anche solo poco ascoltata la voce e il punto di vista delle donne. Non resta che affidarci alla contrattazione per riuscire a ottenere correttivi e quei risultati necessari e importanti sul fronte culturale e occupazionale, non esclusivamente femminile. Perché appare davvero sempre più difficile che il Paese possa uscire dal guado ignorando e non avvalendosi delle energie e delle competenze di oltre metà della sua popolazione.
Susanna Camusso è responsabile delle Politiche di genere della Cgil
Esmeralda Rizzi fa parte del dipartimento delle Politiche di genere della Cgil