Davvero non c’è più bisogno del sindacato?
Stiamo ai fatti. Quando il sindacato era più forte i lavoratori stavano meglio. I salari e gli stipendi erano più alti, le pensioni più dignitose e, più in generale, migliore la qualità della vita all’interno delle aziende. Questo stato di cose non è durato molto, a voler stare larghi dalla fine degli anni ’60 alla fine degli anni ’80.
Da quel momento, per le ragioni più varie – la più importante delle quali va rintracciata nella volontà degli imprenditori di riprendersi quello che erano stati costretti a concedere – abbiamo assistito a un attacco durissimo
alle organizzazioni dei lavoratori, un attacco favorito, per altro, anche dai processi di globalizzazione.
La strategia messa in campo nel lungo periodo ha fatto leva su almeno tre fattori.
- Dividere i lavoratori fra loro.
- Dividere le organizzazioni sindacali.
- Screditare il sindacato.
Dividere i lavoratori è stato piuttosto facile. La propaganda si è sbizzarrita facendo uso di molti slogan che hanno solleticato la parte più individualistica delle persone. Quante volte abbiamo sentito dire: “Dobbiamo premiare il merito!”; oppure: “Bisogna penalizzare i fannulloni!”. Il risultato è paradossale ma fortemente voluto. Se negli anni ’70 un manager prendeva circa 40 volte lo stipendio di un impiegato medio, oggi prende ben 400 volte di più! Il merito è stato premiato così.
Ora, è evidente che quel malloppo è di fatto sottratto alla redistribuzione, e che ciò significa lasciare al palo i salari e gli stipendi della maggioranza dei lavoratori. Eppure è culturalmente difficile, molto difficile, ammettere che ci hanno preso in giro per anni.
In compenso, questi ricchi manager, per mascherare il loro appetito pantagruelico, mettono in campo una serie di strategie comunicative più o meno raffinate. Per esempio, consentono ai propri dipendenti di dare loro del “tu”. Come nel gioco delle tre carte assistiamo a una illusione: le gerarchie in apparenza scompaiono (non si parla più di padroni e lavoratori ma, strumentalmente, di collaboratori), la vita nei luoghi di lavoro appare più democratica, ma nel concreto c’è sempre qualcuno che può dirti: “Tu (sì proprio tu!) sei licenziato!”
Per non parlare dell’uso ruffiano di certi appellativi esotici ricchi di inglesismi che, nei fatti, nulla aggiungono al nudo inquadramento contrattuale: team leader, officer worker, management consultant, ecc; che però “fanno fico”.
Ma torniamo alle leggi, torniamo agli aspetti normativi. Da questo punto di vista l’opera di divisione dei lavoratori è cominciata con norme che, da principio, penalizzavano solo i nuovi assunti (quelle sul lavoro interinale e le varie forme di precarità, per intenderci) ma risparmiavano gli altri. C’erano i sommersi e i salvati, poi si è ristretto progressivamente il cerchio fino a che i sommersi sono diventati tutti quanti. Il Jobs act e la cancellazione dell’art.18 hanno rappresentato solo l’ultimo atto di questa opera di smantellamento dei diritti.
Dividere le organizzazioni sindacali è stato forse più complicato, o per meglio dire ha richiesto più tempo. Per anni la Cgil ha avuto un ruolo molto influente nella definizione delle rivendicazioni sindacali, facendo pesare la propria maggiore rappresentanza fra i lavoratori. Quando i governi e Confindustria hanno deciso, complice la mancanza tutt’altro che casuale di una legge sulla rappresentanza, di fare accordi “con chi ci stava” a prescindere dal peso specifico delle varie organizzazioni dei lavoratori, hanno trovato la disponibilità di Cisl e Uil, sia perché sono entrambe portatrici di culture sindacali diverse, sia perché (ma forse soprattutto) c’era la volontà di emarginare la Cgil.
Sui metalmeccanici della Fiom, la categoria storicamente più arcigna, meno conformista e meno incline a compromessi peggiorativi, si è poi giocata una partita durissima e senza esclusione di colpi, basti pensare a quanto è successo in Fiat, o alle vicende inerenti certi contratti nazionali.
Sul terzo punto ci si è poi sbizzarriti. La propaganda per screditare il sindacato non ha tralasciato alcun argomento, per quanto pretestuoso o falso potesse essere. Purtroppo, i comportamenti poco limpidi di alcuni sindacalisti (pensioni gonfiate, stipendi eccessivi, accordi firmati vergognosamente al ribasso) hanno contribuito a generalizzare la sfiducia e a fare di tutta un’erba un fascio.
Attenzione però. Non facciamoci distrarre. L’obiettivo dell’attacco non è stato il sindacato complessivamente inteso. Il sindacalismo di base, ovvero il sindacalismo settoriale e corporativo, andava benissimo. Il bersaglio grosso, quello a cui si voleva fare davvero male era il sindacato confederale e in particolar modo quello rappresentato dalla Fiom e dalla Cgil. Ovvero, quel tipo di sindacato che si rivolge all’intera classe lavoratrice; quel tipo di sindacato che cerca di armonizzare le esigenze dell’intera collettività delle lavoratrici e dei lavoratori, non solo quelle di una parte. Del resto, non c’è da meravigliarsi troppo. È dai tempi del fascismo che si cerca in tutti i modi di rendere corporativo il sindacato. Tanto che fu proprio il fascismo a promuovere le corporazioni e rendere illegale la Cgil. Non che i sindacati di corporativi siano sempre fascisti, ma è altrettanto certo che non danno alcun fastidio al sistema, anzi ne costituiscono una preziosa stampella, amplificando con slogan qualunquistici e demagogici quegli attacchi che gli stessi poteri forti portano al sindacato confederale.
È quindi evidente che, per tornare alla domanda iniziale, il sindacato serve, che il sindacato ha ancora senso. Certo, deve trovare la forza di riformarsi, di essere meno burocratico, e soprattutto deve trovare il modo di portare a casa dei risultati concreti.
Ma il compito del sindacato non può essere quello contrattare il massimo possibile per categorie più o meno forti di lavoratori (pratica che contraddistingue i sindacati di base) lasciando fuori le altre. Il compito di un sindacato che vuole fare seriamente il suo mestiere è quello provare a garantire un avanzamento collettivo.
La necessità di andare avanti tutti insieme, specie in quest’epoca di grande frammentazione e parcellizzazione, è quanto mai vitale: sia per chi si ritiene debole, sia per chi si ritiene contrattualmente più forte. Non è più il tempo delle illusioni e del marciare divisi, ma dell’unità. Di quell’unità che, da sempre, è stata la vera e unica forza dei lavoratori.
Fonte: Huffington Post