In merito al diritto di disconnettersi una volta terminato l’orario di lavoro, si deve evidenziare come il tempo libero, inteso quale completo blackout dagli impegni lavorativi dopo aver timbrato il cartellino d’uscita, sia ormai purtroppo un ricordo del passato, ossia del mondo prima dello smart working.
Avere il pc costantemente acceso e lo smartphone sempre connesso, controllare l’e-mail anche mentre si è a pranzo e rispondere ai WhatsApp persino dopo cena sono abitudini che, durante l’ultimo anno, si sono consolidate fino a diventare irrinunciabili per un numero sempre crescente di lavoratori.
Già a gennaio 2020 il Parlamento europeo – a proposito di lavoro agile – discuteva della necessità di porre un freno alle richieste che pervenivano dai datori di lavoro fuori dall’orario d’ufficio, altra consuetudine che oggi, con lo smart working entrato nella routine di moltissimi lavoratori europei, è quasi una priorità. E lo è al punto che il diritto alla disconnessione ha scalato la classifica delle preoccupazioni degli eurodeputati. Non essendoci ancora in tal senso alcuna legislazione a livello continentale, il parlamentare maltese Alex Agius Saliba – dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici – si è fatto promotore di una risoluzione – approvata con 472 voti a favore, 126 contrari e 83 astenuti, a cui è seguita una proposta di direttiva che verrà discussa dalla Commissione UE – che definisce per la prima volta il diritto a disconnettersi.
Nel concreto, la risoluzione dovrebbe tradursi in una serie di strumenti che porteranno a tutelare il tempo libero dei dipendenti: la registrazione del tempo di lavoro anche da remoto, il diritto a un compenso adeguato alle condizioni e un meccanismo atto a proteggere i lavoratori dalla vittimizzazione da parte dei loro capi, tale per cui non sarà il lavoratore a dover dimostrare di aver subìto una discriminazione bensì il datore a dover fornire le prove di non averla perpetrata.
Per evidenziare quanto sia fondamentale separare, anche solo psicologicamente, la vita lavorativa e il tempo libero, basta vedere il vertiginoso aumento dei problemi di salute mentale verificatosi nel 2020 tra casi di burnout (esaurimento), depressione e solitudine. Nell’ultimo anno il 40% dei lavoratori ha sperimentato lo smart working per la prima volta e, secondo l’agenzia europea Eurofound, il 38% dei teleworkers ha dichiarato di lavorare anche durante il tempo libero; percentuale che scende al 5% intervistando dipendenti che si recano fisicamente in ufficio.
Secondo Agius Saliba, però, il lavoro delle istituzione europee per aggiornare la legislazione alle nuove dinamiche lavorative è solo all’inizio. I punti da affrontare sono infatti tanti e tutti urgenti. Uno è, ad esempio, la fornitura del necessaire per il lavoro da casa, come l’arredo da ufficio, l’elettricità e la connessione a internet. Un altro è la chiarezza che lo smart working sia volontario e non imposto dal datore di lavoro.
Da ultimo ma non per importanza va esaminato attentamente l’aspetto legato alle ripercussioni umane, come la già dichiarata solitudine e altre conseguenze dell’impatto, specie se consideriamo come il numero di persone che lavorano da remoto sia salito alle stelle da marzo 2020. In Italia si parla di circa 3 milioni di lavoratori e, secondo Banca d’Italia, 1,8 milioni solo nel privato.
L’uso dei software per le videoconferenze si è moltiplicato esponenzialmente da inizio pandemia e per molti telelavoratori software come Zoom, Teams o Skype sono diventati compagni inseparabili della routine quotidiana. Non tutti però sono contenti di dover fare i conti con questa nuova forma di comunicazione, pertanto per i meno entusiasti, oltre allo stress del lavoro da remoto, lo smart working porta con sé diversi “effetti collaterali”. Stando a un nuovo studio pubblicato da Buffalo 7 (agenzia inglese specializzata in presentazioni aziendali), un fenomeno conosciuto come “ansia da Zoom” sta affliggendo un numero viepiù consistente di lavoratori. Definita come “una sensazione di panico che sopraggiunge quando ci viene chiesto di entrare in una videochiamata”, l’ansia da Zoom riguarda quasi tre quarti dei dipendenti che lavorano da casa, benché per motivi variabili da individuo a individuo. Con un 73% di utenti che dichiara di aver avuto problemi di ansia da Zoom nel corso dell’anno, è tuttavia chiaro che per molti le videochiamate rappresentano uno scoglio contro cui l’impatto genera apprensione e talvolta angoscia nel lavoratore.
Tra i fattori più comuni di preoccupazione delle persone che soffrono di ansia da Zoom rientrano: le conseguenze di un possibile malfunzionamento della connessione, che può costare tempo a colleghi e clienti e indurre il lavoratore a tacciare sé stesso di incompetenza; l’impossibilità di sfruttare in modo efficace il linguaggio del corpo; la paura di non essere ascoltati; la mancanza di tempo per rendersi esteticamente presentabili e il cruccio della possibile inadeguatezza dell’ambiente che fa da sfondo alla chiamata. Anche il New York Times ha rilevato che lo sfondo è diventato parte integrante del modo di presentarsi agli interlocutori virtuali, quasi fosse un’estensione del dress code, al pari di giacca e cravatta.
In altre parole, il giudizio su un lavoratore in video call verrebbe esteso anche a ciò che si ha alle spalle. Tanto che, per levarsi dall’imbarazzo di mostrare la propria casa a colleghi e superiori, sempre più persone hanno iniziato a servirsi di sfondi virtuali. Da qui nasce la cosiddetta “psicosi da sfondo”, che è poi la proiezione remotizzata della necessità di sentirsi apprezzati sul luogo di lavoro.
Da questo punto di vista, in smart working l’empatia, intesa come la capacità di comprendere lo stato d’animo altrui, è fortemente depotenziata, in quanto filtrata da uno schermo. Questa mancanza di complicità con l’altro, certamente favorita dal lavoro in presenza, può talora tradursi in una maggiore insicurezza circa proprio status all’interno dell’azienda.
Per aiutare coloro che si sentono assaliti da questo tipo di ansia, l’agenzia Buffalo 7 ha stilato una lista di consigli utili:
- limitare le videochiamate accertandosi preventivamente se siano urgenti o necessarie, partendo dal concetto che non sempre la videochiamata si rivela l’opzione più efficiente; a volte, ad esempio, può risultare più facile e conveniente condividere le informazioni con un documento;
- programmare sempre con congruo anticipo una videochiamata, dimodoché gli interlocutori abbiano il tempo necessario per prepararsi e siano meglio organizzati e meno ansiosi;
- coordinarsi con il proprio gruppo di lavoro per decidere il numero massimo di chiamate giornaliere e, laddove ciò non fosse possibile, prendersi delle pause tra una call e l’altra per ridurre lo stress al minimo;
- accertarsi se sia necessario mostrare il proprio volto alla webcam e, qualora lo fosse, evitare di posizionarla frontalmente, così da potersi concentrare di più sul lavoro e meno sulla propria immagine;