MOBBING E STRAINING: DUE FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA
Col termine Mobbing, la cui etimologia risale al verbo inglese to mob, cioè «assalire, molestare», si fa riferimento, in generale, all’insieme dei comportamenti persecutori che tendono a emarginare un soggetto dal gruppo sociale di appartenenza, tramite violenza psichica protratta nel tempo e in grado di causare seri danni alla vittima. In relazione all’ambito lavorativo, è definito come una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte di colleghi o uperiori. In poche parole, un atteggiamento che impedisce alla vittima di lavorare o di svolgere serenamente la propria attività. Tale comportamento può anche essere messo in atto da persone che abbiano una certa autorità sulle altre (ad esempio capi area, responsabili, direttori), in tal caso si parla di bossing.
Da queste definizioni appare evidente che esistono diversi punti in comune. In particolare vorremmo sottolineare le gravi conseguenze sul piano psicologico delle vittime di questi “abusi”, che, nei casi più gravi, possono portare ad atti estremi.
Anche nei motori di ricerca utilizzati da internet, il termine di bullismo viene associato, oltre che al mobbing, ad altri fenomeni quali al nonnismo nell’ambito delle forze armate e al cyberbullismo.
Più recentemente, in ambito lavorativo, si sono con maggiore precisione delineate figure differenti e maggiormente specifiche a descrizione delle varie situazioni di conflittualità lavorativa che danneggiano il lavoratore, ma anche l’organizzazione aziendale così come, in senso più ampio, la collettività. Una tra queste è lo straining, che è “una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è in persistente inferiorità rispetto alla persona che attua lo straining (strainer) e viene attuato appositamente contro una o più persone, ma sempre in maniera discriminante”
Con sentenza n. 7844 del 29 marzo 2018, la Corte di Cassazione ha affermato che il datore di lavoro “è tenuto ad evitare situazioni “stressogene” che diano origine ad una situazione che possa, presuntivamente, ricondurre a una forma di danno alla salute anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio. Lo stress forzato può arrivare dalla costrizione della vittima a lavorare in un ambiente ostile, per incuria e disinteresse del suo benessere lavorativo“. Nel caso di specie un dipendente da una azienda del credito aveva subìto azioni pur limitate nel tempo ed anche distanziate tra di loro e non riconducibili al mobbing, ma tali da un mutamento, in negativo, della propria imposizione lavorativa e tale da pregiudicare il diritto alla salute. La conseguenza di questa sentenza è stata la condanna nei confronti dell’istituto di credito alla corresponsione delle differenze retributive (… seguenti al demansionamento …) e, ravvisando un evento lesivo per la salute del ricorrente a causa dei comportamenti tenuti dalla resistente, al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale. |
FONTI NORMATIVE
Art. n. 2087: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Secondo la giurisprudenza l’obbligo contemplato dalla norma non è circoscritto al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, implicando altresì il dovere dell’azienda di astenersi da comportamenti lesivi dell’integrità psico-fisica del lavoratore. La disposizione richiamata, nella interpretazione comunemente accolta, si ispira al principio del diritto alla salute, inteso nel senso più ampio, bene giuridico primario garantito dall’art. 32 della Costituzione e correlato al principio di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. Da tale disposizione sorge il divieto per il datore di lavoro non solo di compiere direttamente qualsiasi comportamento lesivo della integrità psico-fisica del prestatore di lavoro, ma anche l’obbligo di prevenire, scoraggiare e neutralizzare qualsiasi comportamento di tal fatta posto in essere dai superiori gerarchici, preposti o di altri dipendenti nell’ambito dello svolgimento dell’attività lavorativa.
COSA FARE
La vittima di straining deve affrontare un percorso clinico mirato contestualmente o antecedentemente a quello legale. E’ di estrema importanza che, in caso di assenze per malattia, la diagnosi del medico di base attesti che la patologia è riconducibile al contesto lavorativo. Sul piano legale è importante rivolgersi al sindacato o ad un avvocato giuslavorista specializzato. L’azione risarcitoria si prescrive in dieci anni, trattandosi di responsabilità contrattuale (legata alla violazione dell’art. 2087 c.c.). Naturalmente è consigliabile attivarsi tempestivamente, sia per prevenire l’aggravarsi dei danni, sia per ragioni pratiche-processuali: in cause in cui le testimonianze sono di fondamentale importanza, il trascorrere del tempo rischia di far perdere memoria storica ai testimoni e rischia dunque di compromettere la buona riuscita della causa.