MOBBING SUL LAVORO: SONO LESIONI COLPOSE
La depressione provocata da comportamenti vessatori del datore di lavoro equivale alle lesioni colpose, nella misura in cui questi procurano dapprima una sindrome ansioso depressiva su base reattiva, indi il manifestarsi di un disturbo depressivo maggiore.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione Penale – Sez. 4, 08 ottobre 2018, n. 44890 – nel giudicare il ricorso di un imprenditore della provincia di Pordenone, condannato in primo grado e poi in appello a Trieste per lesioni colpose.
Quindi, il datore di lavoro che vessa il dipendente, tanto da indurre un disturbo depressivo rischia una condanna
per lesioni personali colpose, reato che – a seconda della gravità – prevede una pena fino a due anni di carcere.
Un reato prescritto, ai fini penali, ma per il quale il datore di lavoro pagherà in sede civile. A tale proposito, vale la
pena ricordare che, come più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, nel reato di lesioni personali colpose (anche in ambito lavorativo) la prescrizione inizia a decorrere dal momento dell’evento, ovvero dal momento di insorgenza della malattia in fieri anche se non ancora stabilizzata o divenuta irreversibile o permanente.
Secondo l’imputazione, il datore di lavoro ha provocato nel dipendente «una marcata patologia psichiatrica» con «una serie di comportamenti vessatori e persecutori, sia mediante espressioni ingiuriose», sia cambiandogli ripetutamente le mansioni, con «continue e ripetute contestazioni disciplinari, spesso a contenuto del tutto pretestuoso», dopo che il dipendente era rimasto in regime di malattia per alcuni periodi.
Di qui, per il lavoratore, l’insorgere di “una sindrome ansioso/depressiva su base reattiva”, seguita da “un disturbo depressivo maggiore”. Patologie confermate dal centro di salute mentale di Trieste e da provvedimenti dell’Inail.
Prima il tribunale di Pordenone, poi la Corte d’appello di Trieste, il 4 luglio 2017, avevano condannato l’imprenditore, senza la concessione delle attenuanti, disponendo anche una provvisionale.
Con la sentenza in commento la quarta sezione penale ha respinto il ricorso del datore di lavoro decretando, però, la prescrizione del reato. La prescrizione, spiega la Corte, inizia a decorrere dal momento dell’insorgenza della malattia, per l’operaio di Pordenone nel 2008. Mentre i giudici di merito – osserva il collegio – l’avevano calcolata a partire dalla cessazione del rapporto di lavoro, a fine 2011. La prescrizione però non ha eliminato gli effetti civili della, che dovranno essere fatti valere in tribunale.
Inoltre la Suprema Corte ha posto l’accento sulla “riferibilità causale delle patologie psichiche, integranti sicuramente la nozione di “lesioni”, alle condizioni cui la persona offesa era stata sottoposta dal datore di lavoro, con condotte delle quali è stata data dimostrazione, anche per via documentale”.